lunedì 3 marzo 2008

L'orrenda malattia sociale

2 marzo 2007

Mentre faccio colazione, Abilio entra in cucina dicendo tra se e se “cosa posso dare da mangiare a questi due?”.
Non so perché ma ho sentito dentro di me che “quei due” era riferito a Yanfranco e Gladis, un bimbo di 9 anni e sua madre, entrambi malati di Aids.

Il terrore verso questa malattia mi impedisce di respirare, di restare calma.

“Io non vado a salutarli!”, dice un seminarista!
In quel momento, la rabbia mi sale, e gli rispondo seccata: “e questa sarebbe la tua vocazione?”.
“Cosa fai il prete con i sani e magari ricchi?”.
“Non sono mica scemo, perché devo andare ad ammalarmi!”, controbatte il ragazzo ancora lontano dal vestire il saio.

“Io credo che sia solo l’amore di Dio e verso i tuoi fratelli ceh ti spinga a non provare rigetto per queste persone, solo un’incommensurabile amore ti fa stare di fronte a questi dolorosi misteri della vita!”.
Il ragazzo mi osserva, mi dice che ho ragione, nasconde un po’ della vergogna che prova ad aver parlato così.
Vado sola, mi avvicino alla porta, li saluto da lontano e un mare di lacrime mi scende.
Non ci riesco, scappo dentro.

Prendo le matite colorate, un peluche, dei pennarelli e fogli da disegno, tutta carità delle persone a Milano e mi riavvio, questa volta con i seminaristi al mio seguito.

Gladis si alza, mi bacia, io tremo, ma il mio sorriso è più forte di qualsiasi titubanza, abbraccio il piccolo e gli regalo tutte quelle cose che avevo portato con me.

I ragazzi, giovane clero, non hanno che allungato la mano, non un bacio, non un abbraccio.

La madre inizia un discorso agghiacciante sulle conseguenze sociali di questa malattia. Le parole le escono fluide, interrotte solo lievemente da qualche lacrima consapevole.
La voce risulta ferma, decisa, ma addolorata, mai arresa però.
Quando arriva al racconto della sorella che porta i suoi cucchiai quando va a mangiare da lei, beh, io non reggo più la tristezza e mi copro la faccia e il pianto.
Non sono così forte, ma forse non c’è proprio da essere forti, c’è solo da sentire in te la sofferenza dell’altro.
Si, forse è solo questa la questione, essere capaci di vivere empaticamente con le persone che incontriamo, in quello riesco bene.

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