lunedì 26 novembre 2007

23 novembre

Decidiamo di andare a prendere Roy a scuola e ci avviamo camminando tra sassi e sabbia. Il sole cocente mi brucia la testa e mi scotta viso e spalle, ma io cammino senza curarmene, perché sono felice e piena di vita.
Arriviamo davanti alla scuola, come sempre tutti i ragazzini mi guardano come se fossi un extraterrestre.
Oramai questa cosa mi fa sorridere e nulla di più; all’inizio mi preoccupava.
I ragazzini che mangiano al comedor, vedendomi all’entrata della loro scuola, mi corrono incontro per abbracciarmi, Eva filma tutto e sorride.
“Dov’è Roy?”, chiedo.
“Segnorita, è venuta qui solo per Roy?”, mi chiede Deissy ed io leggo delusione nei suoi occhi.
“No, per tutti voi, anche per Roy”.

Mentre camminiamo Roy richiama la mia attenzione, mi fa vedere il braccialetto appena comprato che riporta una scritta: Roy y Gaia.
Iniziamo le riprese e la signora cede, inizia un’intervista dolosa sia per lei che per noi, la signora piange ed io vorrei fermare la telecamera, ma Eva continua.
Vediamo la cucina, uno stanzino fuori dalla casa/stanza, tutto tace: le pentole vuote e il gas inesistente.
“Dov’è il bagno?”, chiedo io.
“Lo faremo tra un po’, abbiamo iniziato a scavare la buca dello scarico”.
Precisazione: lo scarico non è il nostro scarico che scarica veramente. Si tratta di un buco di 3 metri dove “cadranno” i bisogni e dove resteranno fino a riempire del tutto il buco, allora si chiuderà quello per aprirne un altro più in la.
Ce ne andiamo, ma poco dopo essere salita sul combi cambio idea e torno a casa di Roy.

Vedo da lontano casa usa, grido il suo nome più volte e finalmente esce, mi sorride e dice “andiamo!”.
Purtroppo scendendo incontriamo tutti gli altri che lo guardano in modo cattivo.
“Dimmi un po’”, dice Gonzalo, “tu chi sei? Perché tutto sto interesse nei tuoi confronti?”.
Io rido, ma vedo che la cosa è più seria del previsto.
“Non pensare che ti porti con se per tutta la sua vita!”, lo avverte un altro.
“Appena se ne va lei vedi come le prendi”, gli grida Watson pensando che io non capissi.

sabato 24 novembre 2007

Non c'è Fretta

Una giornata veramente speciale.


La mattina, senza preavviso, roy si è presentato alla porta di casa, ha giocato al computer e mangiato con tutti noi.

Sono stata felice di vederlo, veramente!


Poi sono corsa in chiesa per le cresime dei miei ragazzini di Moron Chico e...


Mi sono ritrovata a fare la madrina alla cresima di Diego. Tutto ciò è stato deciso a messa iniziata..questo è il Perù.

Il tempo non esiste e perchè preoccuparsi di organizzare cose troppo presto...

O no?!


chiaramente dovevo fare io le foto, ma lasciai la mia macchina ad un signore che più che fare danni non fece.


tra dieci minuti prenderò l'aereo e volerò in brasile.

ciao

giovedì 22 novembre 2007

Le signorine di Moron Chico

Tra i miei fans peruviani, non posso assolutamente permettermi di tralasciare le signorine dell'angolo di Moron Chico, con le quali ogni martedi e giovedi pomeriggio chiacchiero per qualche momento.


Sanno che vengo e mi preparano un bidone anche per me, per farmi sedere.

Le loro voci uonano dolci ed armoniche, come se cantassero.

Mi illuminano, veramente.

Che giornatina

Scendiamo e organizzo un gioco abbastanza tranquillo, ma Gonzalo e Watson non mi lasciano in pace.
Ogni cosa che fa l’uno viene sottolineata dall’altro, e viceversa.
Iniziano ad azzuffarsi ed io perdo il controllo.
Come due pazzi coinvolgono nella loro rissa, più psicologica e verbale che fisica, il resto dei bambini.
“state zitti!”, urlo con una voce che riesce a coprire, sottomettere e far tacere tutte le altre.
Cerco di non arrossire, ma non ci riesco. La mia voce li ha veramente spaventati.
Credo di non aver mai urlato tanto forte, tanto ferocemente.

Dopo qualche secondo di nuovo la tragedia.
Uno si alza, l’altro gli urla addosso, vola una sedia.
“Watson, Gonzalo: prendete le vostre cose ed uscite. Ora!”.
Il mio viso non è mai stato così serio, sento l’autorità in mio possesso, ci credo veramente.
Spesso si cerca di imporsi, senza riuscirci, ma questa è una prova: o mi obbediscono, oppure posso anche dire addio al mio ruolo educativo qui dentro.

“Ci racconti qualcosa di spaventoso che ti è successo?”.
Racconto nella bufera che aveva colto impreparate me e la Vale quest’estate, aggiungo particolari spaventosi, condisco con colpi di scena degni di una puntata della “Signora in Giallo” e mi aiuto con la mimica facciale, dono naturale!
Finisco il racconto, vado in cucina e prendo i pezzi di pane avanzati da ieri.
Li distribuisco e me ne divoro un pezzo anche io, sono realmente stremata.
Da quando li avevo mandati fuori, Gonzalo si è arrampicato sui muri, ha cercato di forzare la porta, ha lanciato sassi contro il cancello e urlato come un dannato.
Il pezzo di pane mi tira su.
Facciamo qualche foto ed i miei occhi cadono sul sacchetto di pane con dentro ancora due pezzi.
Noto un movimento minuscolo, ma continuo.
Co guardo meglio ed il mio stomaco inizia a dare cenni di disgusto.
Il pane che avevamo mangiato era pieno di formiche dentro nella mollica.

mercoledì 21 novembre 2007

Inaspettato

“Gaia!”, ha gridato una voce che stentavo a riconoscere.
Mi sono voltata e ho visto Carmen che rideva inseguita da Gustavo.
“Gaia, senorita Gaia, Gustavo dice…”.
La sua voce era stupenda, limpida, solare, felice.
Il mio cuore ha avuto un attimo di stasi, di blocco.
Carmen non mi aveva praticamente mai parlato, ora stava gridando il mio nome, lo gridava e rideva con gli altri. Cercando di sfuggire a Gustavo, si è venuta a riparare dalla mole del ragazzino tra le mie braccia.
L’ho accolta e mi ha sorriso.
Ero veramente felice sul combi, mentre tornavo.

“Allora quando mi porta a casa sua?”, mi ha chiesto Roy timidamente.
“Giovedi va bene?”, gli ho risposto.

I miei occhi avevano ben impressa la figura di Carmen che mi salutava per la strada e di Roy che, “come un uomo per bene dovrebbe fare sempre”, mi ha accompagnato, aspettando il mezzo pubblico con me.
Mi è rimasta dentro l’immagine di lui che guardava nel vuoto mentre il combi si allontanava; la sua testa poi si era abbassata e con lo sguardo di chi è abbandonato si era avviato a casa.

Mi sento bene

Mi chiedo tuttora cosa tenesse dentro.
Si faceva pregare per tutto.
Mi chiamava, attirava la mia attenzione, poi, quando gli davo retta, sembrava che la mia presenza fosse un peso.
Le lezioni sono un modo per conoscerli, per stare con loro, per dare loro il mio tempo.
Lui si è presentato alla lezione, ma ogni minuto usciva dall’aula, io lo rincorrevo e lui mi diceva che io non lo volevo dentro l’aula.
Gli sorridevo, lo abbracciavo e con l’amore materno, che mi spunta ogni giorno da non so dove, lo convincevo a rientrare.



Ho sentito un forte colpo che proveniva dal piano di sotto, dove i ragazzini si erano fermati a giocare.
Sono corsa giù ed ho notato che non stavano facendo nulla di speciale, ho capito subito che mi stavano aspettando.
Così ho detto: “Beh, ci vediamo mercoledì, ok?”
In quel momento ho letto nelle loro facce tristezza, che si tramutò in sorriso e urla non appena dissi:”però potremmo vedere un po’ di tele!”.
Ci siamo sistemati tutti sulle sedie di legno e più che guardare la tele ci facevamo solletico, mi prendevano in giro per via della mia paura degli scarafaggi alati e ridevamo coprendo perfettamente la voce di Shakira alla Tv.

Infine ho preso spunto dai libri di Torey Hayden ed ho iniziato a fare massaggi.
I beneficiari: Roy, Deissy e l’amico di Watzon.
Il contatto fisico è qualcosa di estraneo a loro, anche se lo ricercano disperatamente.
Alla fine ho ottenuto un risultato esattamente uguale a quello con i miei ragazzi di milano: si sono messi tutti seduti uno dietro all’altro e a vicenda si sono fatti i massaggi.
Una stupenda catena di benessere.

martedì 20 novembre 2007

Non sempre va come si vorrebbe

Mentre sorseggio il caffè ripenso a ad ieri e una sorta di gelo mi invade la mente.
Jussara e Devora si sono comportate davvero male, lasciandomi di stucco quando solitamente il loro atteggiamento è veramente impeccabile.
Hanno fatto il muso per metà del tempo che sono restate al Centro Monfort, dove abito io, poi, visto che i ragazzini non hanno accettato di giocare solo a pallavolo, le fanciulline hanno preso e se ne sono andate, senza però sfuggire ad una necessaria predica di fronte a tutti quanti.
Temo di averle perse.
Ma allo stesso tempo sarebbe assolutamente diseducativo chiamare e chiedere scusa, visto che non sono io quella che deve farsi scusare.
La gelosia tra di loro, ieri, ha superato ogni limite di sopportazione.
Fernando contro Jussara.
Miguel contro Isabel.
Devora conto Diego.

Le ragazzine se ne sono andate, io ho giocato per altre due ore con i maschi.
Soddisfatta da un lato, distrutta dall’altro.
E’ stato veramente difficile, ma penso che tutto si sistemerà, sono ragazzini d’altronde.

lunedì 19 novembre 2007

Faggina..saggina...


Mi sono svegliata veramente prestissimo, temo di non aver fatto sogni stupendi nemmeno questa notte.
Mi chiedo il perché visto che mi sono addormentata senza problemi con una serenità sorridente che mi faceva brillare dentro.

Guardo la mia faccia riflessa nello specchio, tocco la mia pelle per sentire quanto questa vita la stia rovinando, pettino i capelli con la ricrescita più scura ben visibile, in contrasto con il biondo ossigenato della chioma: pare di toccare paglia, di pettinare fili sintetici annodati tra loro, di accarezzare i fini capelli di Barbi, belli i primi giorni in cui ci giochi, poi magicamente la bambolina si tramuta in un’oscena figura con la testa sormontata da una scopa di saggina.
E qui penso a Vale.
Lei che per “faggina” dice “saggina”, poi si scusa dicendo che effettivamente la saggina è quella che si caccia nei boschi, e allora la selvaggina che cos’è?

E qui la penso e sorrido.

Penso a quando dico io qualche frase inaspettata e sento da lei: "menomale che esisti!".

Menomale che esistiamo dico io.

Io, lei e il mondo.

Trovo nell’armadio un vestitino comprato a mille lire una decina di anni fa, lo indosso con sotto un paio di pantaloni di lino rossi.
Mentre cammino verso la sala da pranzo noto un sole stupendo che apre gli occhi alla vita.
La mia pelle si scalda nel breve tragitto che percorro per riempirmi la pancia tre volte al giorno.

sabato 17 novembre 2007

Che faresti?


La bimba entra in camera sua, un altro cumulo di mattoni dove c’è un letto e qualche armadietto, non manca il solito odore di urina e sporco.
Si spoglia e chiede di mettersi mutande e calze pulite.
“Prima ti lavi, poi ti vesti con roba pulita!”.
Mi dice, indicando con lo sguardo, di non potersi lavare “li”, perché il papà non vuole.
“Cosa?”, le tempie mi pulsano.
“Mio papà, mi picchia se mi lavo li!”.
Aiuto, non capisco più nulla.
Sussurro alla bambina se il papà ci fosse in quel momento, sapevo bene che non era presente, quindi il problema doveva derivare dall’altro uomo di casa.
“No, non c’è!”, risponde con voce e sguardo insieme.
“Allora cosa c’è che non va? Io non glielo dico!”.
“Mi tio! No puedo!”, indica la stanza dove lo zio guardava la tv.
Mi si gela il sangue nelle vene.
Una bimba di sei anni, che si spoglia tranquillamente davanti a me, perfetta sconosciuta, non dovrebbe avere problemi con un familiare che vive li.
I miei pensieri sono altri, ma sento il ragazzo che si avvicina, sta ascoltando probabilmente da un po’.
Le dico che le avrei lavato almeno i piedini.
“Puzzano no?”, mi dice ridendo, gardandoli come se non le appartenessero, come se non fosse affar suo, ma dei piedi stessi.

Prendo una bacinella, dell’acqua semi pulita, ma d’altronde l’unica che c’era, e le lavo i piedi, le insegno come deve fare.
La abbandono due secondi per andare a prendere l’asciugamano e la trovo che si lava la faccia con la stessa acqua sporca del catino.
“Noooo!”, urlo, ma con dolcezza.
Noto con orrore che se l’era anche bevuta.

venerdì 16 novembre 2007

Imparare



Mi stavo quasi abituando a non parlare più del mio lavoro, quando arriva una proposta di collaborazione da un femminile italiano.
Subito, in preda al panico, inizio a scrivere e pensare a cosa sia meglio dire e meglio tacere.
Mi riempie di vitalità, di voglia di fare: una nuova sfida.
Chi conosce la mia storia ecco che si accorge di quanto una cosa cosi, per me, valga.
Finii l’università e cercai di trovare uno stage nel mondo del giornalismo, ma nulla.
Forse troppo difficile, forse troppo impreparata io.
Insomma, la mia vita prese una piega diversa e la mia professione diventò le “pubbliche relazioni”.
Questo impiego mi ha permesso di conoscere molti giornalisti e di instaurare dei rapporti, come dire, umani.

Adesso forse posso raccogliere i semi traducibili in disponibilità da parte loro.

La vita mi sorride anche per molte altre cose, piano-piano imparo ad amare in modo gratuito, a non disperare di piccole sconfitte e a guardare avanti.
Imparo che un momento nero esiste, ma imparo a vederlo grigio, non più nero.
Imparo che può essere grigio scurissimo, mai nero.
Imparo che ci sono varie tonalità di grigio, ma sempre nero con bianco è!

martedì 13 novembre 2007

Ciao Enrico

Perché è sempre così: i migliori o li conosci troppo tardi, o se ne vanno troppo presto.
E così anche Enrico se ne va.
Domani lui non ci sarà più a La Era, non lo troverò alla porta di casa, non ci incontreremo al puerto di Nana.
Cerco di non dare a vedere la mia tristezza, il mio smarrimento.

Che farò?
Da quando lo conosco la mia vita peruviana è cambiata.
Ho conosciuto una realtà che non riuscivo a vedere, ho incontrato i ragazzini più poveri dei poveri, ho sofferto con lui per gli anziani del villaggio, ho visitato persone che non si ricordano nemmeno di essere tali.
Mi ha iniziato alla sua avventura e mi ha aperto le porte alla sua creatura, in modo del tutto naturale, gratuito.
Mi ha dichiarato cos’è la condivisione, l’amore, il sacrificio.

“Ecco qui, Abilio ti regala le chiavi di casa!”, dice Luciano.
Ma io so che quelle chiavi me le regala lui.
Sono emozionata, commossa. Alla fine io sono comunque un ospite, e lui mi ha dato le chiavi di casa sua!
Luciano è un’altra di quelle persone che stimo qui in questo arduo paese.
Se se ne andasse anche lui avrei dei seri problemi in tema di “ritorno in perù”.

Gli dico che sarei tornata a La Era in un’oretta circa per la festa di Enrico.
Mi dice che mi accompagna lui, guardo il cielo ed in effetti inizia già ad essere buio.

“Ma aspetta che ti do un regalo da dargli, io non entro, mi commuovo poi! E’ proprio una bella persona, Enrico!”, mi dice Luciano.

Arriviamo al comedor e Enrico ed Aida non ci sono, intanto si rompe anche il freno a mano. Li decide di andarsene.
Entro nel comedor e mi assalgono i loro saluti.
Guardo Roy, Deisy, Yefferson e i loro sorrisi mi riempiono di gioia.
Io li ho conquistati, loro hanno conquistato me.
E’ vero che tutti i bambini qui ti vengono a salutare, ti abbracciano e ti fanno festa, ma con i ragazzi più grandi e soprattutto con i maschi la cosa è differente.
Se non ispiri loro fiducia non ottieni nulla.

Arrivano Enrico e Aida e do loro il regalo di Luciano.
Mi fanno salire in casa loro e mi mostrano tutto ciò che dovrei sapere dell’appartamento, mi lasciano le chiavi, dicono di andarci quando voglio e, se dovessi tornare a gennaio, dicono che potrei stare li.
Mi commuovo, quasi mi metto a piangere.

La festa trascorre benissimo, i ragazzini mi chiedono se anche io me ne andrò.
Ho le lacrime agli occhi, guardo in basso, sussurro di sì.
“E quando ritornerà hermana Gaia?”
La voce si perde in una tremenda stretta al cuore.
“Non so se tornerò!”.

Disimpegno




Mi sveglio ed Enrico con Aida mi vengono a prendere.
“Ti porto a vedere un asilo, l’asilo che noi appoggiamo, cercando di renderlo un po’ più accettabile. Ti accorgerai di cosa sto parlando!”.
Le parole di Enrico accendono la campanella d'allarme.
Devo prepararmi al peggio.
Arriviamo alla porta d’entrata, Enrico la apre senza suonare.
Inizio a guardarmi intorno e, poiché mi ero preparata, non mi sento male.

I bambini corrono incontro a lui urlando “Hermano Enricoooo!!!”.
E’ stupendo vedere come è amato chi dà loro amore.

L’asilo è costituito da due edifici, e chiamarli così è veramente una maniera generosa di esprimersi.
Uno è la cucina, l’altro sono le aule, due aulette.
Rivolgo la mia attenzione sui bambini e noto, come sempre, che le maestre si disinteressano completamente del loro aspetto, della loro pulizia.
Il naso che cola, il viso sporco di sabbia, i rigagnoli neri di lacrime vecchie mai asciugate.
Vedo come giocano, rimango sconvolta: con un rastrello ed una carriola.
Vedo come mangiano, resto a bocca aperta: tutto il cibo sulla maglietta, sui pantaloni, sul tavolo e per terra.
Vedo come vanno al bagno: sono troppo bassi per arrivare alla tazza, la maestra non se ne cura e loro fanno come possono … la fanno per terra.

Saluto con i nervi queste maestre che dovrebbero amare, e ci dirigiamo verso il comedor.
Il caldo mi debilita, la pressione mi scende improvvisamente e mi ritrovo a boccheggiare su una sedia.

lunedì 12 novembre 2007

Pablo Neruda

12 novembre 2007

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, il colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

venerdì 9 novembre 2007

E Loro?!?

Arriviamo alla mensa.
Carmen aspetta a casa, sta male: “Ha bevuto acqua cruda!”, dice la nonna.
“Ma come, ma lo sa che non si fa!”, rispondo io esterrefatta.
Una delle prime regole è di non bere assolutamente l’acqua non clorata o non bollita.
Bussiamo a casa sua.
Esce, il viso contratto per i dolori di pancia, sudata, ma fredda.
Le diamo Ciproxin per le coliche, le dico che non deve bere l’acqua così.
Annuisce, si vergogna, poi mi viene in mente casa sua.
Quattro mura di legno, un odore pestilenziale all’interno; nel retro, all’aperto, terra umida e bidoni d’acqua ammassati a casaccio.
Da uno di quei bidoni, lasciati tutto il giorno alla mercé di animali, lei aveva bevuto.

Iniziano ad arrivare i ragazzini della “secondaria”.
Li facciamo mettere in fila: oggi c’è la campagna medica.
Prelievo del sangue, misurazione di altezza e peso.

Vedo le procedure, la dottoressa non si mette nemmeno i guanti, glieli portiamo e la invitiamo a metterseli. Un minimo di rispetto per queste vite.
Vedo le siringhe, gli aghi.
Forse in Italia c’erano negli anni Cinquanta.
Io sarei morta.
Faccio coraggio a qualche ragazzina più agitata, ma non guardo quando l’ago entra nel braccio, non riuscirei a stare in piedi.

Il tempo trascorre, quelli che terminano con i dottori si spostano alla mensa e mangiano tranquilli, parlando di quanto gli ha fatto male l’ago, quanto pesano, di quanto si sono alzati.

Arrivano quelli della “primaria” e iniziano a piagnucolare per la paura.
Non posso dare loro torto, ma probabilmente è per loro l’unica possibilità di farsi fare l’esame del sangue.
Devono farlo.
“Come ti chiami?”
La ragazzina risponde timidamente.
“Quanti anni hai?”
Silenzio.
La bimba ride timidamente, non sa quanti anni ha, ma solo il giorno e il mese del suo compleanno.
Per fortuna Enrico sa la loro età e aiuta i medici a classificare tutte le creaturine.
Viene anche Jerson, uno dei tre fratellini che mangiano qui.
La sua situazione è terribilmente angosciante.
Non hanno padre e la loro mamma è gravemente malata e non può lavorare.
Storia già sentita, si!
Intanto i bambini senza questa mensa non mangerebbero.
Il problema è che non ci sono fondi per accogliere tutti i bambini che necessitano l’aiuto dell’associazione di Enrico.
Ogni bambino è infatti adottato da qualche italiano che dona 30 euro mensili.
Lui è uno dei dieci bimbi che non hanno ancora trovato una persona disponibile ad adottarlo, ma hanno una situazione talmente tragica che Enrico non ha saputo chiudere gli occhi e sperare che arrivasse un padrino ad adottarli, e li ha accettati al programma di alimentazione.
“Ovviamente non si può andare avanti così sempre, mi dice, devo assolutamente qualcuno che paghi per loro, perché non posso accollarmi tutto io, non sono un miliardario”.
Dico che conosco molta gente, che se si mette insieme in piccoli gruppi, con cinque euro al mese può adottare un bimbo.
Lo spero.
Passerò la voce.

Parlo con Roy, suo padre è morto da 10 anni, lui ne ha undici.
Non si ricorda di lui, ma sente la mancanza di un padre.
Nei suoi occhi, i quali i primi giorni non mi guardavano nemmeno, leggo richiesta di amore, di aiuto.
Mi si stringe il cuore, lo guardo con l’amore che posso donargli, lo ascolto.
Anche lui non ha il padrino, anche lui è uno dei ragazzini a rischio perché per lui non c’è nessuno che paghi.
Sarebbe così facile, e allo stesso tempo così inutile.
Inutile per il loro futuro. Per un futuro migliore.
Questi bambini sono destinati a lavorare per la strada, anche con un titolo in mano non cambia molto.
L’istruzione è talmente limitata che anche volendo andare in un altro paese, il loro titolo di studio non varrebbe.
Questa è la tristezza.

Il Minestrone

Apro gli occhi perché fuori dalla mia porta si è riunito un comizio, o almeno così mi pare.
Trascino le mie gambe fino al bagno e mi butto nella doccia dove piano-piano i sensi iniziano a risvegliarsi.
Godo di una colazione ottima, meglio che a Milano, soprattutto perché qui è già pronta, e mi preparo per uscire.
“Vado, Luciano, ci vediamo alle cinque!”.
“Ma non ci sei nemmeno oggi a mezzogiorno?”.
“No, vado alla Era, abbiamo una campagna medica. Poi filo al “Sabiduria” a dare lezioni di italiano, poi arrivo!”.
Mi allontano, esco dalla porta, me la chiudo alle spalle e mi accorgo di aver dimenticato la croce che Luciano mi aveva dato il giorno prima!
Se si indossa una croce si ha una protezione in più: qui anche i ladri e gli assassini rispettano molto la chiesa.

Arrivo al Puerto di Nana, dove dovevo incontrarmi con Enrico.
E’ li che sorride e mi viene incontro.
“Andiamo al mercato, compriamo le fragole, poi ti presento Suor Lucia”.
Entriamo al mercato e l’odore di carne cruda mi regala momenti di nausea. Andiamo a comprare le fragole e la papaia per le suore, ma la mia attenzione viene richiamata da delle strane confezioncine di verdura.
“Quello è il minestrone. Sono i vari scarti della verdura che vengono tagliati ed infilati delle buste che vedi li. Loro lo mettono nell’acqua, lo scaldano ed ecco il minestrone!”.
La cosa esilarante è che se penso al nostro minestrone, che sia surgelato o meno, ha un peso pari al triplo di quel preparato che trovo qui; e la da noi è per tre o quattro persone, qui quella quantità verrà utilizzata per otto pance.

Usciamo dal mercato e saliamo sul combi.
Enrico mi cede l’unico posto libero e rimane in piedi. Rimanere in piedi non vuole dire “in piedi su un autobus italiano. Rimanere in piedi qui vuole dire rimanere piegati e sballottati da una parte all’altra perché il combi ha un’altezza di circa un metro, e le strade sono piene di sassi e buche.

A metà strada si libera un posto e vedo Enrico sudato e rosso per lo sforzo che ha fatto per riuscire a rimanere in piedi.

mercoledì 7 novembre 2007

Se non vedo non credo!

Arrivo trafelata al comedor, sono in ritardo mostruoso perché mi sono soffermata un po’ troppo in chiacchiere su msn.
“Aho! Io ti busso alla porta e nessuno mi risponde!”, mi grida Enrico.
“Come, quando?”
“Sono venuto stamattina alle nove e non mi ha risposto nessuno, almeno salivamo insieme! Ti avevo comprato le fragole, ma le ho lasciate da Suor Lucia! Va beh, che vuoi fa? Gliele vado a richiedere?!”.
Rido, mi scuso per l’udito pessimo e mi lavo le mani nel bagnetto della sala degenza.
Iniziamo a parlare di una delle ragazzine che partecipano al programma adozioni.
“G. non ha nulla, sua madre l’ha smollata al padre appena è nata, il padre un giorno è arrivato qui, da sua madre e, dicendo che andava a comprare le sigarette, l’ha smollata a sua volta alla nonnetta”.
“Ah, quindi vive con qualcuno, cioè, non muore di fame?”, chiedo aspettandomi una risposta positiva.
“Dai, andiamo a casa sua, forza! Così capisci tu da sola”.
Non fu molto promettente tutto ciò.
Prendiamo dall’armadio il Voltaren e ci avviamo insieme alla casa.


Non c’è porta, ma delle assi di legno ammassate che lasciano solo, a chi le vede, la possibilità di utilizzare tanta fantasia e pensare ad una porta.
Ci infiliamo tra queste assi, lo spiazzetto del “cortile interno” mi regala un assaggio della situazione che avrei meglio conosciuto.
Un coniglio, un gatto, un cane e tutte le loro feci donano al luogo un odore nauseante, la signora spunta dal prefabbricato di mattoni color sabbia e con lei esce una storia.
“Attenta, non baciarla che ha la tubercolosi!”, mi avverte Enrico.
Le stringo la mano e mi accorgo che le venature sui palmi e sulle dita sono intrise di sangue rappreso.
Ingoio saliva, cerco di non tremare, mi faccio forza ed entro.
Vedo uo marito, i suoi occhi grigi denotano una cataratte in stato avanzatissimo, le sue mani non si muovono, alza un braccio e io allungo la mia mano per accogliere il suo sforzo di salutarmi.
Ho tanta paura di qualche contagio, ho schifo, ma il cuore cede, l’amore ha il sopravvento e mi calmo.

Guardo intorno, due letti con solo materasso e coperta, cacca di coniglio ovunque, la signora sembra non accorgersene, polvere ovunque, una cucina a gas, un tavolo e qualche sedia e il nonno, ormai parte integrante dell’arredamento, visto che non può muoversi, non può cucinare, non parla molto.
Sto per cedere.
“Enrico, mi viene da piangere!”.
“Questo è, Gaia, aspetta però, ascolta”.

La signora inizia a parlare, la sua voce si interrompe continuamente da deboli colpi di tosse, mi dice di non preoccuparmi che non mi contagia, io arrossisco e le sorrido, il mio volto assume soluzioni impensate per non esternare ciò che provo.
“Dobbiamo mettere G. in collegio, primo perché qui non rispetta sua nonna, secondo perché impari che la vita si guadagna, terzo perché non finisca tra due anni a prostituirsi!”.
Guardo Enrico sbalordita. Come si possono dire queste cose?
Inizio poi a comprendere che questa è la normalità delle cose.

“La signora sa che non durerà molto. E di g. che ne sarà?”.
Non lo so!
Enrico e Aida le pagano tutto, la trattano come una figlia, stavano per adottarla, perché non ha un cognome, i suoi genitori non l’hanno riconosciuta, ma poi le ha iniziato ad ostentare la sua fortuna, ha iniziato a vantarsi dei regali, dei soldi che le davano, e tutto ciò davanti ad altri bambini che non avevano nulla.
Questo ha spinto la coppia a lasciarla vivere la, ma continuano ad aiutarla.
I nonni non lavorano e non possono cucinare: il nonno è bloccato su una sedia, la nonna ha un’artrite deformante che le impedisce anche solo di girare la manovella dei fornelli per accendere il fuoco.

Usciamo da quella casa e entriamo in quella di A. e D.
Il padre ha abbandonato tutto e tutti, la madre soffre di una rara malattia che le provoca convulsioni che calma con il Valium. Una confezione di Valium costa 200 soles: una cifra impossibile da pagare se pensiamo al fatto che la mamma non lavora e che la nonna fa la sarta.
Un guadagno mensile normale è di 600 soles, che equivale a 150 euro, ma si parla di gente che ha un lavoro fisso.
Li a La Era la gente non ha lavoro, la gente guadagna anche 100 soles al mese.

Mi chiedo e mi domando ogni secondo come facciano.

La risposta che ricevo è: Dio ci manda persone buone, ce la facciamo con fatica, ma per giorni non mangiamo.

Il cuore mi diventa sempre più piccolo e penso agli sprechi quotidiani di Milano.
Mi sento male.

La mamma di A. e D. li lascerà tra poco, la lacerazione al cervello diventa sempre più grossa e le ha fatto perdere quasi tutti i denti, le ha provocato una malformazione alla mandibola; le guardo le gambe: sono la metà delle mie.
Una creatura più di la che di qua.

Usciamo anche da quella casa, andiamo al comedor e mangiamo con i ragazzini.
Alle tre do lezioni di italiano, i ragazzini sono sempre più numerosi, sempre più attenti.
Oggi: i colori, i giorni della settimana, i mesi dell’anno, i vestiti.
Faccio frasi alla lavagna e mi accorgo che non posso utilizzare diverse espressioni.
Sono vietate:
oggi mi sono comprata, ieri sono andata al cinema, le scarpe nuove sono blu, oggi ho mangiato la pizza…

Povertà di spirito...


Cammino per la strada de La Era ed incontro facce note, che mi salutano.
Io ricambio con il sorriso e porto il mio sguardo verso la terra, verso quella sabbietta fine che invade le strade, quella stessa sabbia che abita le case e si traduce in polvere perenne che ricopre ogni cosa, ogni oggetto.
Guardo le case, anche loro color sabbia, le osservo con incredula resa.
Sono sporche, paiono abbandonate, mi chiedo se ci siano fantasmi o persone reali li dentro, poi vedo dalle finestre con i vetri rotti che la gente c’è e si muove e vive dentro quei mattoni accatastati alla buona.
I bagni sono un lusso.
Con bagni intendo uno stanzino nel cortile, fuori dalla casa, con una tazza, senza la doccia, senza lavandino.

La polvere viene risvegliata ogni minuto dai numerosi autobus (il nostro fiorino) che arrancano sulle pendici sassose dei piccoli pueblitos.
Urlano “puerto!” e la gente fa segno con la mano perché si fermino.
“Sube, sube!” sbraita l’apriporta.
La gente sale.
E sale dove vuole: non esistono le fermate.
La gente decide dove salire e dove scendere.
Si possono anche fermare 10 volte nel giro di pochi metri.
La gente comanda, l’autista obbedisce.
Ci si ammassa tutti in un piccolo spazio, odori e corpi ti assalgono come se fossi parte del mezzo di trasporto. Ti schiacciano contro il finestrino per sedersi anche se di posto non ce n’è più.
In Italia ognuno ha il suo sedile, qui ci sono panche lunghe e anche i sedili vengono sfruttati al massimo, la gente li sfrutta, la gente ti schiaccia, perché l gente qui è aggressiva e comanda.

Respiro piano piano la mentalità del popolo peruviano.
Mi accorgo della veridicità delle parole dell’inizio “noi non amiamo i poveri perché sono santi. Li amiamo perché sono poveri”.
E la povertà non ti unisce, ti disarma, ti riduce ad essere cattivo, aggressivo, sleale.
Tutto per poter mangiare.

Il povero, se aiutato, molte volte non ringrazia, molte volte chiede di più e si arrabbia molto se non ottiene ciò che chiede.
I poveri non si accontentano spesso.
I poveri si univano prima, collaboravano. Ora si sbattono le porte in faccia, perché stanno meglio di prima, ma sono nella miseria comunque.
Ci sono poveri, quelli poveri in spirito, che lottano ancora, che ti amano perché gli dai una busta di riso, che ti ringraziano mille volte solo perché sei andato nelle loro case per salutarli.
I poveri di spirito sono anche i bambini, ma c’è il pericolo che crescano senza mantenersi tali.

L’educazione qui è realmente un tasto dolente.

domenica 4 novembre 2007

Al comedor


Martedi mi stavo preparando per andare da Enrico e mi chiamò Sanfilippo, spiegandomi che aveva ricevuto la mail di protesta che io stessa avevo inviato a Don Paolo.
Mi tranquillizzò, mi confermò la difficoltà a partecipare alle loro missioni, ma per un semplice motivo di preparazione, che avviene tra di loro, per anni, in Italia.
Accettai la sua versione e mi disse di provare ad andare alla casa un’altra volta, vedere e sperimentare la loro vita. Poi ne avremmo parlato a Milano e da qui mi avrebbe seguito lui un po’.

Fui felice della sua disponibilità, ma altro aleggiava nell’aria.
Andai a vedere il comedor di Enrico e mi trovai benissimo.
I bambini erano entusiasti di vedermi.
Mi chiesero subito un sacco di cose, mangiai con loro, non mi fermai la il pomeriggio.
Ma mi accordai per andare la il venerdì seguente; loro non ci sarebbero stati ed io avrei potuto stare con i ragazzi.
Mi diedero completa autonomia e lo presi come un segno.
Non proprio evangelico, ma più o meno direi: non tutto il male viene per nuocere! Pensando a ciò che era successo con quelli dell’organizzazione del Matogrosso.

Halloweeeeeeeeen

Il mercoledì di Halloween, riuscii ad ottenere il permesso per andare alla discoteca.
Non mi sembrò vero, ma lo feci sul serio.
Ovviamente alle dipendenze di qualcuno, e questa volta, la cosa umiliante era che quel qualcuno aveva sette anni meno di me!
Stefany è la nipote di Charo, l’amica di Luciano alla quale ho portato l’insulina.
E’ una ragazza grassottella, piena di vita, come tutti a quell’età; alla mia già si avvertono i primi segni di invecchiamento: pigrizia, problemi inutili, depressione.
Mi presentò i suoi conque amici e le sue tre amiche davanti alla discoteca ed io feci bene i conti, cinque e cinque, li rifeci meglio.
Capii!
Capii che avrei ballato tutta la sera con uno di quei ragazzini diciottenni senza poter scegliere, accettando chiunque di loro mi avrebbe porto la mano.
Allora pensai, mi sono fregata per la seconda volta con le mie mani.

Entrammo e ognuno di noi si trovò davanti una caraffa da un litro di birra.
Pagai diciassette soles sia l’entrata che la consumazione. Il che vuole dire che pagai 4 euro per bere e ballare.
Nascosi il mio pacchetto di sigarette perché compresi bene come sarebbe finita, visto che nessuno di loro aveva sigarette, ma tutti loro volevano fumare.
Passarono la serata a chiedersi da dove cavolo le scroccassi.
Mi prese la mano uno di loro e credetti di morire: grasso, pizzetto, brufoli adolescenziali.
Per fortuna era veramente simpatico e parlammo qualche minuto mentre cercavo di capire che tipo di musica stava sentendo lui in quel momento, visto che i suoi piedi ballavano con un ritmo diverso da quello che tutta la discoteca aveva adottato.
Dopo un po’, ringraziai e mi allontanai dalla pista in direzione tavolo della salvezza.
Non feci in tempo ad arrivare la che un ragazzino, molto carino, ma altrettanto giovane, mi chiese di ballare.
“Scusa, no comprendo!”.
Risposi, poiché non avevo alcuna intenzione di cascare tra le braccia di un altro, visto che mi ero appena liberata.
“Ok, do you speak english?”, l’ottima pronuncia mi lasciò di stucco.
“Yes, I do?”.
“Do you wanna dance with me?”, ero stata sedotta dal suo inglese, ebbene si!
“Yes, vamos a bailar!”, dissi io, lui rise e mi portò da dove ero fuggita dieci secondi prima.
Le luci frastornanti mi impedivano di concentrarmi sul suo volto, mi dedicai al pavimento e alla folla circostante.
Ballai con gli occhi chiusi, mi trascinava la musica e il suo sapiente ballo.
“Esta es salsa!”, urlò.
“No, puedo. No se bailar salsa!”.
No mi lasciò andare, ma con pazienza mi insegnò le poche e semplici cose da sapere, ballammo salsa.
Il resto della serata lo passai un po’ con lui ed un po’ con lui ed il suo amico.
Non vidi Stefany per gran parte della notte.
Mi venne a chiamare alle cinque, quando dovevamo andare.
Le chiesi dove avrei potuto trovarla dopo, poiché avevo intenzione di fermarmi con Marco ancora un po’.
“No se puede Gaia. Usted viene con nostro!”.
Cedetti per la stanchezza, ma lo stomaco si strinse più che mai.

Avrei avuto voglia di scappare e mandare tutti a quel paese, ma non lo feci.
Mite come un agnellino mi addormentai nel taxi che ci lasciò a casa della sua amica, da li un altro ci portò, poco dopo, a casa sua.
Dormii su un materassino gonfiabile sgonfio. Cercai di dormire. Ci riuscii. Erano anche le sei e venti!

Viva Roma...

Pochi giorni fa ero davanti al collegio Sabiduria, dove studiano 1.200 ragazzine, dagli undici ai diciassette anni.
Entrò un tipo sulla trentina, poi venni a scoprire che ne aveva quarantadue, che parlava lo spagnolo con un accento conosciuto.
Rimasi in silenzio, fissandolo mentre parlava con il portiere della scuola.
Alla fine mi decisi ad aprire bocca: “tu non sei peruviano, sei de Roma!”.
“Terracina. E tu nemmeno sei peruana!”.
No, nemmeno io lo ero, ed ero felice di aver incontrato un italiano qui.
“E che ce fai qui?!”.
“Beh, sono venuta qui ad aiutare un po’, vivo con i monfortani. Conosci padre Luciano?”.
“E l’ho sentito nominà, ma dirte che in cinque anni che viaggio qua non ce siamo visti, me credi?”.
“Beh, lui era in brasile. Ma se vuoi te lo faccio conoscere io”.
Conversammo per quasi un’ora e mi raccontò dell’opera che aveva fatto a La Era, un quartiere veramente disagiato nei dintorni di nana.

Ci accordammo per vederci il giorno seguente.

Tornai a casa, passai tre ore a chattare con amici e mi sentii priva di possibilità missionarie.
Mi ricordai del Matogrosso, e feci un salto alla loro casa.

Fu talmente umiliante che tornai con le lacrime agli occhi.
Mi accolse una signora e una tipa della mia età, entrambe conoscevano Paolo Sanfilippo.
Mi spiegarono che, non facendo parte di un gruppo del Matogrosso la in Italia, non avrei potuto fare un esperienza con loro.
Ma è possibile???
Uno per fare del bene deve avere il tesserino???
Chiesi loro se c’era la possibilità di conoscerli in questi mesi, per poi unirmi a loro a gennaio e la risposta fu: “no, è difficile perche non condividi il messaggio del Matogrosso, non puoi capirci..”.

Lasciai la casa della delusione e tornai alla mia.
Mi sentii più forte, senza sapere il perché.

Insomma, iniziò tutto così.
Con una delusione.

Mai più!!!

Penso a ieri sera e alla meravigliosa serata in discoteca!
Dopo la messa arrivarono le ragazzine della chiesa a dirmi di uscire.
“Si, pero a la discoteca!”, dissi per scherzo.
Provocai urla e grida di entusiasmo. Avevo suscitato una rivolta di chierichetti, spronandoli al peccato e al ballo sfrenato.
Decidemmo per le nove e mezza e, come rientro, dissi loro che chiedessero per mezzanotte e mezza.
Mangia in un batter d’occhio, non ero super eccitata perché qualcosa dentro di me già odorava nell’aria un leggero tanfo di sconfitta.
Arrivarono puntuali, arrivarono alle nove!
Tre di loro avevano quindici anni, una ventidue, ma sembrava che ne avesse meno delle altre per la fifa che lasciava trapelare quando camminava per la strada di sera.
Arrivammo davanti alla discoteca e dissi a loro che sicuramente non ci sarebbe stato nessuno, la gente non arriva certo alle 21.15!
“Ma no, Gaia, qui si balla anche alle nove!”, assicurarono tutte quante.
Mi avvicinai al gestore e chiesi se c’era molta gente. Per poco non mi rise in faccia ed in quel momento pensai che le avrei ammazzate una per una.
Arrivammo ad un’altra discoteca e qui sembrò ci fosse moltissima gente.
Il buttafuori ci fermò, non avevamo i documenti con noi.
Con occhi da cerbiatto lo supplicai, sarebbe stata la mia ultima notte a Huanuco, volevo passarla in una discoteca.
Accetto la scusa, misera e falsa, e disse che dovevamo pagare due soles a testa. Due soles a testa equivalgono a cinquanta centesimi di euro!!!
Qui accadde dell’altro.
Mi avevano detto di non dare troppo perché i ragazzi si abituano in fretta a farsi pagare tutto.
Infatti la sera prededente avevo pagato io tutto: taxi di andata, gelato e taxi di ritorno.
Questa volta davanti alla discoteca nessuno tirò fuori i soldi.
Le guardai e dissi che avevo solamente 5 soles e che non avrei potuto tornare a casa con il taxi se le spendevo per la discoteca.
Nessuna di loro si mosse, la pù grande giurò di averne solo due di soles per la sua entrata.
Alla fine dissi loro, bene, andiamocene, non possiamo entrare.
Allora una di loro, che probabilmente fu la responsabile della scomparsa del bracciale che Robinson mi aveva donato, tirò fuori giusto giusto due soles.
Allora la maggiore ammise di averne molti di più e di poter pagare per due di loro, mentre all’altra ci avrei pensato io.
Rimasi a bocca aperta e mi sentii presa veramente in giro.
La birra me la offri Rosa, la più grande.
Io non avevo più soles veramente!
Entrammo finalmente.
Ebbi l’impressione di aver sbagliato tutto quando, sulle scale d’entrata le ragazze si bloccarono e non volevano entrare, dovetti spingerle per far sì che arrivassimo nel locale vero e proprio.
Costatai che si, di gente ce n’era, peccato che avrei dovuto ballare con tre persone in una volta se avessi voluto dire di aver ballato con uno della mia età.
La media era 15 anni, mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Mi comprai una birra, mi diedero una bottiglia da sessantasei che condivisi con le ragazzine.
Iniziammo a ballare ed arrivarono i bimbi della discoteca, chiesero ad ognuna di noi di ballare, cosi mi ritrovai a modi festa delle medie: tutte le ragazze da una parte e tutti i ragazzi dall’altra, formando una graziosa fila che divideva a metà la pista da ballo.
Mi dissociai dall’impresa ridicola e ballai da sola.
Dopo poco notai che la maggiore aveva una faccia sconcertata.
“Gaia, ci faranno del male questi qui”.
Questo perché avevano bevuto un po’ e lei l’aveva capito. Capii che era meglio andarsene prima che venisse un attacco di cuore a lei e di isteria a me.

Uscimmo e la più pestifera si distaccò da noi arrabbiata con Rosa.
Iniziò a correre, allora li ebbi paura io.
La raggiunsi e i miei occhi raccontarono tutto, le parole in castigliano uscirono fluide e grammaticalmente adeguate.
Si mise a piangere, ma meglio una ragazzina in lacrime di una ragazzina stuprata!