giovedì 20 dicembre 2007

HELP




Scelgo una meta, parlo con qualcuno e in lontananza sembra che si possa intravedere la possibilità di costituire un progetto per togliere i bambini dalla strada.

Non è come si pensa: la strada non è cattiva.

Io posso stare in strada senza che diventi per forza una drogata.

La cosa che li spinge verso vie sbagliate è la noia, il NULLA da fare.


Per questo ho pensato di organizzare laboratori, dove i bambini possano imparare a suonare uno strumento, a fare teatro, a cantare.

Allo stesso tempo ci sarebbero dei professori di matematica e lingua che darebbero le famose ripetizioni.


tutto questo è ciò che avevo dentro da tempo, e solo gli ultimi giorni sembra possibile da realizzare.


AIUTATEMI!


In piscina con tutti




Una giornata di saluti nel divertimento.

Così i ragazzini di moron hanno deciso che doveva essere la nostra "ultima volta".

In piscina, sotto al sole, giocando e ridendo.


Una giornata di sorrisi, come la maggior parte delle giornate qui.

Il tempo è passato veloce, senza comprendere tutto, senza sapere cosa veramente stava succedendo.

Piano piano sento che non vorrei andarmene, vorrei stare qui, in "casa mia", tra loro, i ragazzini che non hanno molto, ma ti danno tutto ciò che hanno.


In un attimo tutto è volato, ma l'amore per loro è grande come se fosse da anni che li conosco.


mercoledì 12 dicembre 2007

Alle sei e mezza, stavo scendendo verso casa e mi ritrovo a guardare il bigliettaio del Giallo.
Un bambino.
Mi sono fatta coraggio e mi sono presentata, così ho iniziato a fargli delle domande.

“Como te llamas?”, ho chiesto.
“Yordan”
“Cuantos anos tienes?”
“Dodici!”, mi risponde timidamente, allo stesso tempo fiero di fare quello che stava facendo.
“E perché lavori a dodici anni?”, dico dolcemente.
“E’ finita la scuola e un signore mi ha chiesto se volevo lavorare”.
“Quanto guadagni al giorno?”
“Quindici soles, per lavorare dalle sei della mattina fino a mezzanotte”.
Quasi svengo, ma non lo do a vedere. Quindici soles corrispondono a 3.50 euro.

Solitamente il lavoro dei bigliettai è lasciato a giovani o a uomini con un vocione potente, devono gridare “baja” e “sube”, ogni volta che la gente sale e scende, per avvisare il conducente di fermarsi quando c’è gente che sale ed impedirgli che riprenda la marcia mentre qualcuno scende.
Solitamente la loro voce si sente, è quasi fastidiosa.
La voce di Jordan era simile ad uno squittire di topolino, le parole uscivano titubanti, insicure.

Lo saluto, scendo, penso: in Italia non sarebbe mai successo.
“Ancora con questa Italia!”

martedì 11 dicembre 2007

Prenderla con filosofia ... o umiltà e lotta?


"A vida me fez um papelao e eu fiz do papelao a minha vida"

"La vita mi ha fatto un cartone, io faccio del cartone la mia vita"

Il grido di presa di coscienza di molti poveri che vivono per la strada, che lavorano per la strada, che dormono per la strada.
Raccolgono la carta e i cartoni per la strada e li vendono al deposito.
La vita gli ha fatto uno scherzo, loro fanno di questo scherzo la loro vita!

La mia vita

Yeffernos Patty, Michel, Carmen, Deysi, Sami e Gaia
Gustavo

Per ricordare il Brasile

In chiesa


Con i padri


Per la strada

Piccoli incidenti...

Sono stati giorni alquanto movimentati, mancano solo due settimane ai saluti definitivi e nella mia testa si affollano mille preoccupazioni, mille pensieri, mille cose future da organizzare.
Voglio tornare qui, voglio che ciò che ho iniziato abbia un inizio più concreto, che sia la fine del mio inizio e l’inizio di qualcosa di qualcosa senza fine.
Un’impostazione per Moron Chico, un rapporto con La Era.
Due realtà diverse, ma che amo con la stessa forza.

Oggi sono stata come ogni lunedì a La Era; ho giocato a calcio per due ore sotto il sole e, solo quando ho sentito che le mie forze stavano lentamente allontanandosi da me, ho deciso di proporre un simpatico nascondino all’interno della casa.
Ho temuto il peggio, ho veramente creduto che qualcosa sarebbe successo, come venerdì scorso quando mentre parlavo con il fratello ventenne i Gonzalo, Watson è corso a chiamarmi e quando sono arrivata sul posto mi sono trovata Freddy in un bagno di sangue a causa di una pietra lanciata da un altro ragazzino.

Invece non è accaduto nulla, solo qualche scivolata sul cemento, ma abbiamo limitato le tragedie a qualche graffietto, ma d'altronde i bambini sono così!

Non tutto.


L’orecchio mi fa ancora male.
Il cuore un pochino.
Vado alla Sabiduria per la solita lezione di italiano e le ragazzine non si presentano.
“Maria, perdonami, ma io non vengo più. Di a tutte loro che si sono comportate molto male e il tempo di una persona è da prendere sul serio”.
La madre mi guarda e annuisce; si scusa per le alunne, ma ha altro per la testa.
“Abbiamo qui un papà che non vuole accettare che sua figlia sia incinta. Non vuole che tenga il bambino!”.
Le prometto che pregherò per lei, mi allontano e torno a casa.

E’ tardi, ho veramente perso un sacco di tempo oggi!
Prendo il mototaxi, me la cavo con un sol fino a Moron Chico.
Quando arrivo la non c’è nessuno.
Sembra sia passata una banda di terroristi ed abbiano fato fuori ogni sorta di vita umana.
Aspetto tranquilla, passeggiando per le viuzze sporche ed abbandonate.
“Hermanita!”, una voce!
Mi giro, vedo le “signorine del muretto”, ormai le chiamo così.
Tre vecchiette sedute perennemente sopra dei sassi all’angolo del primo isolato di Moron.

Mi soffermo con loro, le guardo e riconosco che mi sono mancate.
Poi da lontano arrivano Diego e John, Adolfo e Josselin.
Mi congedo gentilmente dalle signorine, sposate con figli, e vado a giocare a calcio con i ragazzini.

venerdì 7 dicembre 2007

Chi Ama, Ama



"E' assurdo", dice la ragione

"E' quel che è" dice l'amore

"E' infelicità" dice il calcolo

"Non è altro che dolore" dice la paura

"E' vano" dice il giudizio

"E' quel che è" dice l'amore

"E' ridicolo" dice l'orgoglio

"E' avventato" dice la prudenza

"E' impossibile" dice l'esperienza

"E' quel che è" dice l'amore.


(Chi ama, ama di Erich Fried)

giovedì 6 dicembre 2007

Un posto per ciascuno



Visito la loro cappellina, mi soffermo su due particolari estremamente pittoreschi e significativi.
La croce appesa al muro ha i chiodi, con i quali appesero Gesù, ma Cristo manca.
Non c’è il suo corpo.
La guardo, la osservo.
Mentre penso al suo significato, giunge un’illuminazione: è libera dal corpo di Dio per lasciare spazio al mio, a quello di chiunque guarda la croce, di chiunque prega davanti a Lei, di chiunque desidera “prendere la propria croce e seguirlo”.
Ed io?
Sono pronta?
Umilmente abbasso lo sguardo, sono troppe le paure che mi frenano, le paure di perdermi dei beni materiali e terreni.

Volgo il mio sguardo alle sedie, rimango a bocca aperta: sono tutte bianche tranne una di legno scuro, al centro della stanza, circondata dalle altre.
Su quella sedia c’è scritto “Gesù”.
Che sensazione di pace, di presenza divina!

mercoledì 5 dicembre 2007

Un segno



La strada è senza sentiero, scivoliamo più volte, ma ci diamo una mano a vicenda.
Io cado, metto le mani nella terra per tirarmi su, cado riempiendomi di polvere, ma rido, rido, rido.
Mentre giungiamo alla croce Carmen e Deisy mi danno la mano, camminiamo insieme, arriviamo insieme.
Arriviamo alla croce, facciamo una preghiera per Lino. Preghiamo tutti, un fantastico gruppetto ecumenico.
Dalla cima della montagna urliamo “ciao Italia”, allora la gente ci guarda, qualcuno sorride, altri non capiscono ne cosa abbiamo detto, ne perché siamo tanto contenti.

Torniamo davanti al comedor e impartisco un’interessante lezione di condivisione, chissà mai che la mettano in pratica qualche volta.

L’infermiera Carmen mi chiede di tradurle la lettera dell’italiana dalla quale andrà a vivere. Si occuperà della madre malata.
Leggendola sorrido, perché parla di me come di “quella suora che sta con voi”; mi commuovo perché esprime serenità anche nella sofferenza; mi rallegro perché devo aver fatto un buon lavoro, sto lasciando un segno.

Che sia un segno di speranza, di amore, di gioia.
Che sia un segno non con scritto Gaia, ma con scritto Noi.
Che sia un segno indelebile non nella strada, nella terra, nella roccia, ma nel cuore.
Che sia un segno che sia loro, ma sia mio.
Che sia un segno da leggere, da sentire e da vivere.
Che sia sempre un segno e non la loro vita, solo un segno, ma un segno d’amore.

A Manu, Vale, Popi e Giovi

Finalmente a casa, finalmente nel mio Perù.
Mi alzo con la gioia nel cuore, nel corpo, nella voce e, non fosse per il dolore all’orecchio che mi ha tormentato tutta la notte, penserei che è uno dei giorni più belli della mia vita peruviana.
Il perché è semplice.
Ogni volta che si perde qualcosa, si capisce quanto era importante, ed in Brasile io non avevo il mio Perù, e ne ho sentito la necessità.
Entro in internet, leggo le varie mail di amici e conoscenti e trovo mia madre su msn.
“Sai del nonno Lino?”.
“Si, sta male, vero?”
“Ieri siamo stati al funerale!”.
Lentamente realizzo quello che leggo, lentamente il mio viso si fa rosso, lentamente.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime, anche se non era mio nonno era comunque una parsona cara.
Una persona che emanava serenità, sempre con il sorriso sulle labbra, con il sorriso negli occhi, un sorriso luminoso.
Lui, gli alpini, il coro.
Ma tutto passa, il male ed il bene, allora anche le persone, così anche lui è passato.
La differenza tra chi crede e chi non crede è la visione del passare. Passare dalla vita o passare alla vita.
Ma sempre quando se ne va qualcuno si pensa a chi rimane e così penso a nonna Francesca, a Manu, a Vale, Giovi e Popi.
Penso a chi viveva con lui, a chi lo vedeva sorridere sempre e che ora non lo vedrà sorridere, ma lo sentirà sorridere sempre per le gioie e i traguardi che nella vita loro passeranno.
La croce ci dice: non esiste disastro, senza speranza, non esiste oscurità senza stella, nessuna tempesta senza un porto a cui ancorarsi (Giovanni Paolo II).

Lascio la casa dopo il pranzo, con il pianto in gola, non tanto per la morte, ma per il mancato ascolto da parte di Luciano, al quale mi sono avvicinata un paio di volte per dirgli l’accaduto, senza destare in lui il minimo interessamento.

Sliding door contra vita

Purtroppo, non ho avuto l’opportunità di vivere “Sliding doors”, mi sono dovuta accontentare di una possibilità, di una via, di una scelta. Ed ovviamente ho scelto quella meno appropriata.
Adesso mi dico:se se se.

Allora faccio un passo indietro ed inizio a raccontare con i mille se.
Se non avessi ascoltato Luciano, che mi consigliò di tornare a Monlevade, e mi fossi fermata a B.H. altri due giorni, non sarei andata ad Ouro Preto.
Se giovedi mattina mi fossi svegliata più tardi, non sarei andata ad Ouro Preto.
Se non fossi andata nel negozio di Giuliano ad Ouro Preto, non mi avrebbe chiesto di andare alla festa.
Se Luciano non mi avesse dato il permesso di andare alla festa, io non avrei conosciuto Rafael, non mi avrebbe promesso di venire in Italia, non mi avrebbe detto che per lui ero unica, non mi avrebbe presentato mezza Ouro Preto compresa sua madre.
Se non mi avesse detto queste cose, io domenica mattina non avrei preso il pullman, fatto 2 ore di viaggio e non avrei avuto intenzione di aspettarne altre 5 per prendere il pullman che mi portasse da lui.
Se non avessi dovuto aspettare 5 ore tra un pullman e l’altro non avrei chiamato Giuliano chiedendogli di venire a prendermi alla fermata di Ouro Preto.
E se non l’avessi chiamato, lui non mi avrebbe detto: “Gaia, non venire per Rafael! Scusa, ma devo dirtelo: non illuderti, lui è fidanzatissimo da molto tempo”.

Così termina la mia storia brasilera.

lunedì 3 dicembre 2007

A comunidade de recuperaçao 2




Arrivata alla comunità maschile, ho avuto uno shock nell’osservare come i volti degli uomini e dei ragazzini fossero differenti tra loro.
Alcuni degli “ospiti”, si chiamano così quelli sotto trattamento, non mostravano assolutamente i segni di una vita dedicata alla droga, alcuni di loro li ho addirittura scambiati per i gestori del posto, per gli educatori.


“Domani vado a casa!”, ha detto a ianete uno dei ragazzi.
“Ho paura, sai, mio padre è stato il primo che mi ha messo in mano la droga, mio padre è stato colui che mi ha insegnato a sparare, il primo con cui ho ucciso un uomo!”.
La mia faccia ha mutato espressione, e la gioia che provavo nel vederlo felice si è tramutata in terrore per una vita che ha lasciato e presto rincontrerà.
“So bene che davanti alla droga adesso ce la posso fare a dire di no, ma non datemi una pistola perché so bene che ucciderò ancora!”.


Mi sono chiesta che colpa ne ha lui, perché tutto ciò è merito della gente che l’ha cresciuto.
Ho provato schifo verso suo padre, ma come sempre non potevo fare nulla.

“Cecilia, perché lo lasciate andare ancora a casa?”.
“cara Gaia, la sua vita è fuori, noi non possiamo certo tenerlo in cattività per il resto della sua vita! Purtroppo lui è uno che non ce la farà!”
Mi sono venuti i brividi, l’ho guardata con rabbia: “come puoi dire questo? Perché?”.
“Vediamo nelle parole, nel suono della voce, negli occhi chi ce la farà e chi no!”.
La mia rabbia mi ha dipinto il viso di rosso, non volevo sentire queste parole, andavano contro la sensazione di speranza che loro, i ragazzi, mi avevano infuso.

Mentre camminavamo verso casa ho pregato perché non fosse così, ma ho anche ringraziato Dio per la sua presenza che si sente tramite tutti coloro che lavorano gratuitamente per le vite in pericolo.

A comunidade de recuperaçao


Al mattino avevo appuntamento con Ianete, una ex tossicodipendente recuperata perfettamente che ora lavora come superiore nella stessa casa di recupero dove lei ha riscoperto la vita.
E’ entrata dal cancello automatico con la sorella.
Lei magrissima, ancora con i segni di dieci anni di droga, ben evidenti sul suo volto: i denti rovinati e scuri, le occhiaie violacee e le palpebre color fumo.
Ma il suo sorriso e il tono di voce erano di una persona di vita, felice e serena.
Mi ha accompagnato nella sua comunità dove ho conosciuto le nove ragazze attualmente “in gioco” con se stesse.
La terapia dura nove mesi, come un gestazione, perché il senso del cammino vuole proprio essere quello di rinascere a nuova vita.
Le ragazze mi hanno accolto con l’inno della comunità e le loro voci, le loro espressioni, la voglia che mettevano nel cantare la canzone, mi ha fatto commuovere.
Ho bloccato le lacrime appena in tempo.

Uma storia de amor...

29 novembre 2007



Non mi lascia un solo secondo, mi da la mano, mi accompagna ovunque, mi arrostisce pane e formaggio sapendo della mia poca propensione verso la carne.

La festa finisce ed io mi avvio per le stradine della città mano nella mano con lui, fino a casa sua.
Crolliamo addormentati: io, lui e l’amico.

30 novembre 2007

Alle sei e mezza entra nella stanza una pazza di colore, che urla cercando di svegliare i due per andare a messa, io capisco solo la parola “missa”, ma capisco meglio ancora che i due non si sono svegliati per nulla e non sembrano assolutamente vicini al risveglio.
Mi rimetto a dormire, senza riuscirci.
Finalmente anche lui si sveglia, mi prepara il caffè ed io mi faccio una doccia gelata.
Corriamo a prendere l’autobus che mi riporti a casa, anche se non ne ho nessuna voglia.
Alla stazione vado in bagno e mentre torno da lui, lo vedo seduto che mi guarda mentre mi avvicino, penso a quanto vorrei stare li, a quanto vorrei conoscerlo meglio.

Salgo sul pulman, mi aspettano sei ore di viaggio.
Inizio già a pensare a come rivederlo, ma intanto lo sentirò questa sera, su msn.

Dopo mangiato mi precipito su internet, ma non lo trovo, lo chiamo e mi risponde un altro ragazzo dicendomi che Rafael non c’è, di provare a richiamare più tardi.

Attacco, vado a letto, spero almeno di riuscire a sentirlo domani.

sabato 1 dicembre 2007

Ouro Preto - B.H.



“Andiamo a Ouro Preto, vuoi venire?
Accetto con piacere e mi ritrovo in una macchina con altre cinque persone: un autista amico di Luciano e quattro seminaristi.

“Ciao, todo bem?”, mi chiede un ragazzo biondo, probabilmente il responsabile del negozio di aritigianato.
“Non parlo portoghese; sono italiana!”, gli rispondo.
“Ah, eu vivo con italiano! Ven a festa esa note”, mi invita.
“Ah, magari, ma sono solo di passaggio e non credo mio zio mi lascerà”, rispondo sconsolata, ma dopo un attimo gli dico che avrei provato a chiedere a Luciano.

Corro alla macchina e chiedo all’amico taxista di farmi chiamare Luciano.
“Pronto, sono Gaia, senti, ho conosciuto un ragazzo italiano che studia qui, posso restare per la notte?”, supplico al tefono.
“Si, se credi che sia opportuno, puoi!”.


Arriviamo alla festa e finalmente entra l'amico incontrato poco prima per la strada.

Passo la serata a sperare che mi parli, anche se sembra che non mi veda nemmeno, ma...

27 novembre 2007- B.H.


Usciamo presto di casa e andiamo in centro, da li partiremo per tornare a Monlevade.
Mi meraviglio della città, sembra di camminare a Londra o a Parigi, le vie commerciali sono estremamente curate, al contrario di Lima.
Luciano va per negozi sacri, io per meri negozietti di scarpe.
Finalmente incontro un paio di sandali che mi piacciono e decido di raggiungere Luciano più tardi.
Mi siedo per provare le scarpe e la ragazza che stava vicino a me inizia a parlarmi.
Finiamo così per scambiarci i numeri di telefono per un mio eventuale ritorno in quella città tanto affascinante.

Saliamo in macchina e lasciamo Beo Horizonte.
“Meno male che sorridi a volte!”, mi dice Luciano lasciandomi di stucco.
“Come a volte, se rido sempre io?”
“cosa? Non credo che alla gente che ti vede una volta rimanga l’idea di te di una ragazza che ride!”.
Mi offendo seriamente e cerco di fargli capire che sono ben lunatica, ma che per la maggiorana della mia giornata io rido e ne sono consapevole.
Le persone che ho incontrato, i ragazzi che ho conosciuto, mi hanno sempre parlato poi del mio sorriso solare, come può lui dirmi che mai sorrido?

Mi porta sul punto più alto di Beo Horizonte e vedo la natura intorno alla città, uno spettacolo gratificante.
Riprendiamo la macchina, andiamo a casa.

In brasile: Monlevade - Beo Horizonte


Arrivai in brasile dopo un giorno e una notte di viaggio...


Arrivammo alla casa dove visse per 15 anni.
Grande e allo stesso tempo semplice e non ostentata.
Conobbi padre Gigio, padre Martin e padre Norberto: un mix di Italia, Perù e India.
Personaggi indiscutibilmente sui generis.

Mi addormentai un po’ frastornata ed il mattino mi risvegliai completamente rimbecillita.
Mi dedicai alla chat, trovando una connessione wireless e più tardi aiutai Luciano a tagliare l’erba.
Parlai con Fabio, Efi, Ale e Michi e la cosa più bella che mi sentii dire fu “Ma ti sono cresciuti i baffi!”.
Ma li amo così come sono!

“Gaia, andiamo a mangiare da Mariuda”, sentii il mio cuore palpitare più forte del previsto ed ebbi un moneto di sconforto.
Come se non sentissi nulla di positivo in quella casa, come se quella famiglia mi trasmettesse un’energia a me estranea, indesiderata.


I sorrisi in quella casa erano carichi di sforzo e convenienza, gli unici che mi sembrarono felici: i due fratelli gemelli. Grandi, grossi, con il labbro leporino e qualche problema a relazionarsi con gli altri: non si presentarono, quando arrivai, ma iniziarono a lanciare ogni cosa che capitasse sotto tiro. Due veri esemplari di forza bruta.

lunedì 26 novembre 2007

23 novembre

Decidiamo di andare a prendere Roy a scuola e ci avviamo camminando tra sassi e sabbia. Il sole cocente mi brucia la testa e mi scotta viso e spalle, ma io cammino senza curarmene, perché sono felice e piena di vita.
Arriviamo davanti alla scuola, come sempre tutti i ragazzini mi guardano come se fossi un extraterrestre.
Oramai questa cosa mi fa sorridere e nulla di più; all’inizio mi preoccupava.
I ragazzini che mangiano al comedor, vedendomi all’entrata della loro scuola, mi corrono incontro per abbracciarmi, Eva filma tutto e sorride.
“Dov’è Roy?”, chiedo.
“Segnorita, è venuta qui solo per Roy?”, mi chiede Deissy ed io leggo delusione nei suoi occhi.
“No, per tutti voi, anche per Roy”.

Mentre camminiamo Roy richiama la mia attenzione, mi fa vedere il braccialetto appena comprato che riporta una scritta: Roy y Gaia.
Iniziamo le riprese e la signora cede, inizia un’intervista dolosa sia per lei che per noi, la signora piange ed io vorrei fermare la telecamera, ma Eva continua.
Vediamo la cucina, uno stanzino fuori dalla casa/stanza, tutto tace: le pentole vuote e il gas inesistente.
“Dov’è il bagno?”, chiedo io.
“Lo faremo tra un po’, abbiamo iniziato a scavare la buca dello scarico”.
Precisazione: lo scarico non è il nostro scarico che scarica veramente. Si tratta di un buco di 3 metri dove “cadranno” i bisogni e dove resteranno fino a riempire del tutto il buco, allora si chiuderà quello per aprirne un altro più in la.
Ce ne andiamo, ma poco dopo essere salita sul combi cambio idea e torno a casa di Roy.

Vedo da lontano casa usa, grido il suo nome più volte e finalmente esce, mi sorride e dice “andiamo!”.
Purtroppo scendendo incontriamo tutti gli altri che lo guardano in modo cattivo.
“Dimmi un po’”, dice Gonzalo, “tu chi sei? Perché tutto sto interesse nei tuoi confronti?”.
Io rido, ma vedo che la cosa è più seria del previsto.
“Non pensare che ti porti con se per tutta la sua vita!”, lo avverte un altro.
“Appena se ne va lei vedi come le prendi”, gli grida Watson pensando che io non capissi.

sabato 24 novembre 2007

Non c'è Fretta

Una giornata veramente speciale.


La mattina, senza preavviso, roy si è presentato alla porta di casa, ha giocato al computer e mangiato con tutti noi.

Sono stata felice di vederlo, veramente!


Poi sono corsa in chiesa per le cresime dei miei ragazzini di Moron Chico e...


Mi sono ritrovata a fare la madrina alla cresima di Diego. Tutto ciò è stato deciso a messa iniziata..questo è il Perù.

Il tempo non esiste e perchè preoccuparsi di organizzare cose troppo presto...

O no?!


chiaramente dovevo fare io le foto, ma lasciai la mia macchina ad un signore che più che fare danni non fece.


tra dieci minuti prenderò l'aereo e volerò in brasile.

ciao

giovedì 22 novembre 2007

Le signorine di Moron Chico

Tra i miei fans peruviani, non posso assolutamente permettermi di tralasciare le signorine dell'angolo di Moron Chico, con le quali ogni martedi e giovedi pomeriggio chiacchiero per qualche momento.


Sanno che vengo e mi preparano un bidone anche per me, per farmi sedere.

Le loro voci uonano dolci ed armoniche, come se cantassero.

Mi illuminano, veramente.

Che giornatina

Scendiamo e organizzo un gioco abbastanza tranquillo, ma Gonzalo e Watson non mi lasciano in pace.
Ogni cosa che fa l’uno viene sottolineata dall’altro, e viceversa.
Iniziano ad azzuffarsi ed io perdo il controllo.
Come due pazzi coinvolgono nella loro rissa, più psicologica e verbale che fisica, il resto dei bambini.
“state zitti!”, urlo con una voce che riesce a coprire, sottomettere e far tacere tutte le altre.
Cerco di non arrossire, ma non ci riesco. La mia voce li ha veramente spaventati.
Credo di non aver mai urlato tanto forte, tanto ferocemente.

Dopo qualche secondo di nuovo la tragedia.
Uno si alza, l’altro gli urla addosso, vola una sedia.
“Watson, Gonzalo: prendete le vostre cose ed uscite. Ora!”.
Il mio viso non è mai stato così serio, sento l’autorità in mio possesso, ci credo veramente.
Spesso si cerca di imporsi, senza riuscirci, ma questa è una prova: o mi obbediscono, oppure posso anche dire addio al mio ruolo educativo qui dentro.

“Ci racconti qualcosa di spaventoso che ti è successo?”.
Racconto nella bufera che aveva colto impreparate me e la Vale quest’estate, aggiungo particolari spaventosi, condisco con colpi di scena degni di una puntata della “Signora in Giallo” e mi aiuto con la mimica facciale, dono naturale!
Finisco il racconto, vado in cucina e prendo i pezzi di pane avanzati da ieri.
Li distribuisco e me ne divoro un pezzo anche io, sono realmente stremata.
Da quando li avevo mandati fuori, Gonzalo si è arrampicato sui muri, ha cercato di forzare la porta, ha lanciato sassi contro il cancello e urlato come un dannato.
Il pezzo di pane mi tira su.
Facciamo qualche foto ed i miei occhi cadono sul sacchetto di pane con dentro ancora due pezzi.
Noto un movimento minuscolo, ma continuo.
Co guardo meglio ed il mio stomaco inizia a dare cenni di disgusto.
Il pane che avevamo mangiato era pieno di formiche dentro nella mollica.

mercoledì 21 novembre 2007

Inaspettato

“Gaia!”, ha gridato una voce che stentavo a riconoscere.
Mi sono voltata e ho visto Carmen che rideva inseguita da Gustavo.
“Gaia, senorita Gaia, Gustavo dice…”.
La sua voce era stupenda, limpida, solare, felice.
Il mio cuore ha avuto un attimo di stasi, di blocco.
Carmen non mi aveva praticamente mai parlato, ora stava gridando il mio nome, lo gridava e rideva con gli altri. Cercando di sfuggire a Gustavo, si è venuta a riparare dalla mole del ragazzino tra le mie braccia.
L’ho accolta e mi ha sorriso.
Ero veramente felice sul combi, mentre tornavo.

“Allora quando mi porta a casa sua?”, mi ha chiesto Roy timidamente.
“Giovedi va bene?”, gli ho risposto.

I miei occhi avevano ben impressa la figura di Carmen che mi salutava per la strada e di Roy che, “come un uomo per bene dovrebbe fare sempre”, mi ha accompagnato, aspettando il mezzo pubblico con me.
Mi è rimasta dentro l’immagine di lui che guardava nel vuoto mentre il combi si allontanava; la sua testa poi si era abbassata e con lo sguardo di chi è abbandonato si era avviato a casa.

Mi sento bene

Mi chiedo tuttora cosa tenesse dentro.
Si faceva pregare per tutto.
Mi chiamava, attirava la mia attenzione, poi, quando gli davo retta, sembrava che la mia presenza fosse un peso.
Le lezioni sono un modo per conoscerli, per stare con loro, per dare loro il mio tempo.
Lui si è presentato alla lezione, ma ogni minuto usciva dall’aula, io lo rincorrevo e lui mi diceva che io non lo volevo dentro l’aula.
Gli sorridevo, lo abbracciavo e con l’amore materno, che mi spunta ogni giorno da non so dove, lo convincevo a rientrare.



Ho sentito un forte colpo che proveniva dal piano di sotto, dove i ragazzini si erano fermati a giocare.
Sono corsa giù ed ho notato che non stavano facendo nulla di speciale, ho capito subito che mi stavano aspettando.
Così ho detto: “Beh, ci vediamo mercoledì, ok?”
In quel momento ho letto nelle loro facce tristezza, che si tramutò in sorriso e urla non appena dissi:”però potremmo vedere un po’ di tele!”.
Ci siamo sistemati tutti sulle sedie di legno e più che guardare la tele ci facevamo solletico, mi prendevano in giro per via della mia paura degli scarafaggi alati e ridevamo coprendo perfettamente la voce di Shakira alla Tv.

Infine ho preso spunto dai libri di Torey Hayden ed ho iniziato a fare massaggi.
I beneficiari: Roy, Deissy e l’amico di Watzon.
Il contatto fisico è qualcosa di estraneo a loro, anche se lo ricercano disperatamente.
Alla fine ho ottenuto un risultato esattamente uguale a quello con i miei ragazzi di milano: si sono messi tutti seduti uno dietro all’altro e a vicenda si sono fatti i massaggi.
Una stupenda catena di benessere.

martedì 20 novembre 2007

Non sempre va come si vorrebbe

Mentre sorseggio il caffè ripenso a ad ieri e una sorta di gelo mi invade la mente.
Jussara e Devora si sono comportate davvero male, lasciandomi di stucco quando solitamente il loro atteggiamento è veramente impeccabile.
Hanno fatto il muso per metà del tempo che sono restate al Centro Monfort, dove abito io, poi, visto che i ragazzini non hanno accettato di giocare solo a pallavolo, le fanciulline hanno preso e se ne sono andate, senza però sfuggire ad una necessaria predica di fronte a tutti quanti.
Temo di averle perse.
Ma allo stesso tempo sarebbe assolutamente diseducativo chiamare e chiedere scusa, visto che non sono io quella che deve farsi scusare.
La gelosia tra di loro, ieri, ha superato ogni limite di sopportazione.
Fernando contro Jussara.
Miguel contro Isabel.
Devora conto Diego.

Le ragazzine se ne sono andate, io ho giocato per altre due ore con i maschi.
Soddisfatta da un lato, distrutta dall’altro.
E’ stato veramente difficile, ma penso che tutto si sistemerà, sono ragazzini d’altronde.

lunedì 19 novembre 2007

Faggina..saggina...


Mi sono svegliata veramente prestissimo, temo di non aver fatto sogni stupendi nemmeno questa notte.
Mi chiedo il perché visto che mi sono addormentata senza problemi con una serenità sorridente che mi faceva brillare dentro.

Guardo la mia faccia riflessa nello specchio, tocco la mia pelle per sentire quanto questa vita la stia rovinando, pettino i capelli con la ricrescita più scura ben visibile, in contrasto con il biondo ossigenato della chioma: pare di toccare paglia, di pettinare fili sintetici annodati tra loro, di accarezzare i fini capelli di Barbi, belli i primi giorni in cui ci giochi, poi magicamente la bambolina si tramuta in un’oscena figura con la testa sormontata da una scopa di saggina.
E qui penso a Vale.
Lei che per “faggina” dice “saggina”, poi si scusa dicendo che effettivamente la saggina è quella che si caccia nei boschi, e allora la selvaggina che cos’è?

E qui la penso e sorrido.

Penso a quando dico io qualche frase inaspettata e sento da lei: "menomale che esisti!".

Menomale che esistiamo dico io.

Io, lei e il mondo.

Trovo nell’armadio un vestitino comprato a mille lire una decina di anni fa, lo indosso con sotto un paio di pantaloni di lino rossi.
Mentre cammino verso la sala da pranzo noto un sole stupendo che apre gli occhi alla vita.
La mia pelle si scalda nel breve tragitto che percorro per riempirmi la pancia tre volte al giorno.

sabato 17 novembre 2007

Che faresti?


La bimba entra in camera sua, un altro cumulo di mattoni dove c’è un letto e qualche armadietto, non manca il solito odore di urina e sporco.
Si spoglia e chiede di mettersi mutande e calze pulite.
“Prima ti lavi, poi ti vesti con roba pulita!”.
Mi dice, indicando con lo sguardo, di non potersi lavare “li”, perché il papà non vuole.
“Cosa?”, le tempie mi pulsano.
“Mio papà, mi picchia se mi lavo li!”.
Aiuto, non capisco più nulla.
Sussurro alla bambina se il papà ci fosse in quel momento, sapevo bene che non era presente, quindi il problema doveva derivare dall’altro uomo di casa.
“No, non c’è!”, risponde con voce e sguardo insieme.
“Allora cosa c’è che non va? Io non glielo dico!”.
“Mi tio! No puedo!”, indica la stanza dove lo zio guardava la tv.
Mi si gela il sangue nelle vene.
Una bimba di sei anni, che si spoglia tranquillamente davanti a me, perfetta sconosciuta, non dovrebbe avere problemi con un familiare che vive li.
I miei pensieri sono altri, ma sento il ragazzo che si avvicina, sta ascoltando probabilmente da un po’.
Le dico che le avrei lavato almeno i piedini.
“Puzzano no?”, mi dice ridendo, gardandoli come se non le appartenessero, come se non fosse affar suo, ma dei piedi stessi.

Prendo una bacinella, dell’acqua semi pulita, ma d’altronde l’unica che c’era, e le lavo i piedi, le insegno come deve fare.
La abbandono due secondi per andare a prendere l’asciugamano e la trovo che si lava la faccia con la stessa acqua sporca del catino.
“Noooo!”, urlo, ma con dolcezza.
Noto con orrore che se l’era anche bevuta.

venerdì 16 novembre 2007

Imparare



Mi stavo quasi abituando a non parlare più del mio lavoro, quando arriva una proposta di collaborazione da un femminile italiano.
Subito, in preda al panico, inizio a scrivere e pensare a cosa sia meglio dire e meglio tacere.
Mi riempie di vitalità, di voglia di fare: una nuova sfida.
Chi conosce la mia storia ecco che si accorge di quanto una cosa cosi, per me, valga.
Finii l’università e cercai di trovare uno stage nel mondo del giornalismo, ma nulla.
Forse troppo difficile, forse troppo impreparata io.
Insomma, la mia vita prese una piega diversa e la mia professione diventò le “pubbliche relazioni”.
Questo impiego mi ha permesso di conoscere molti giornalisti e di instaurare dei rapporti, come dire, umani.

Adesso forse posso raccogliere i semi traducibili in disponibilità da parte loro.

La vita mi sorride anche per molte altre cose, piano-piano imparo ad amare in modo gratuito, a non disperare di piccole sconfitte e a guardare avanti.
Imparo che un momento nero esiste, ma imparo a vederlo grigio, non più nero.
Imparo che può essere grigio scurissimo, mai nero.
Imparo che ci sono varie tonalità di grigio, ma sempre nero con bianco è!

martedì 13 novembre 2007

Ciao Enrico

Perché è sempre così: i migliori o li conosci troppo tardi, o se ne vanno troppo presto.
E così anche Enrico se ne va.
Domani lui non ci sarà più a La Era, non lo troverò alla porta di casa, non ci incontreremo al puerto di Nana.
Cerco di non dare a vedere la mia tristezza, il mio smarrimento.

Che farò?
Da quando lo conosco la mia vita peruviana è cambiata.
Ho conosciuto una realtà che non riuscivo a vedere, ho incontrato i ragazzini più poveri dei poveri, ho sofferto con lui per gli anziani del villaggio, ho visitato persone che non si ricordano nemmeno di essere tali.
Mi ha iniziato alla sua avventura e mi ha aperto le porte alla sua creatura, in modo del tutto naturale, gratuito.
Mi ha dichiarato cos’è la condivisione, l’amore, il sacrificio.

“Ecco qui, Abilio ti regala le chiavi di casa!”, dice Luciano.
Ma io so che quelle chiavi me le regala lui.
Sono emozionata, commossa. Alla fine io sono comunque un ospite, e lui mi ha dato le chiavi di casa sua!
Luciano è un’altra di quelle persone che stimo qui in questo arduo paese.
Se se ne andasse anche lui avrei dei seri problemi in tema di “ritorno in perù”.

Gli dico che sarei tornata a La Era in un’oretta circa per la festa di Enrico.
Mi dice che mi accompagna lui, guardo il cielo ed in effetti inizia già ad essere buio.

“Ma aspetta che ti do un regalo da dargli, io non entro, mi commuovo poi! E’ proprio una bella persona, Enrico!”, mi dice Luciano.

Arriviamo al comedor e Enrico ed Aida non ci sono, intanto si rompe anche il freno a mano. Li decide di andarsene.
Entro nel comedor e mi assalgono i loro saluti.
Guardo Roy, Deisy, Yefferson e i loro sorrisi mi riempiono di gioia.
Io li ho conquistati, loro hanno conquistato me.
E’ vero che tutti i bambini qui ti vengono a salutare, ti abbracciano e ti fanno festa, ma con i ragazzi più grandi e soprattutto con i maschi la cosa è differente.
Se non ispiri loro fiducia non ottieni nulla.

Arrivano Enrico e Aida e do loro il regalo di Luciano.
Mi fanno salire in casa loro e mi mostrano tutto ciò che dovrei sapere dell’appartamento, mi lasciano le chiavi, dicono di andarci quando voglio e, se dovessi tornare a gennaio, dicono che potrei stare li.
Mi commuovo, quasi mi metto a piangere.

La festa trascorre benissimo, i ragazzini mi chiedono se anche io me ne andrò.
Ho le lacrime agli occhi, guardo in basso, sussurro di sì.
“E quando ritornerà hermana Gaia?”
La voce si perde in una tremenda stretta al cuore.
“Non so se tornerò!”.

Disimpegno




Mi sveglio ed Enrico con Aida mi vengono a prendere.
“Ti porto a vedere un asilo, l’asilo che noi appoggiamo, cercando di renderlo un po’ più accettabile. Ti accorgerai di cosa sto parlando!”.
Le parole di Enrico accendono la campanella d'allarme.
Devo prepararmi al peggio.
Arriviamo alla porta d’entrata, Enrico la apre senza suonare.
Inizio a guardarmi intorno e, poiché mi ero preparata, non mi sento male.

I bambini corrono incontro a lui urlando “Hermano Enricoooo!!!”.
E’ stupendo vedere come è amato chi dà loro amore.

L’asilo è costituito da due edifici, e chiamarli così è veramente una maniera generosa di esprimersi.
Uno è la cucina, l’altro sono le aule, due aulette.
Rivolgo la mia attenzione sui bambini e noto, come sempre, che le maestre si disinteressano completamente del loro aspetto, della loro pulizia.
Il naso che cola, il viso sporco di sabbia, i rigagnoli neri di lacrime vecchie mai asciugate.
Vedo come giocano, rimango sconvolta: con un rastrello ed una carriola.
Vedo come mangiano, resto a bocca aperta: tutto il cibo sulla maglietta, sui pantaloni, sul tavolo e per terra.
Vedo come vanno al bagno: sono troppo bassi per arrivare alla tazza, la maestra non se ne cura e loro fanno come possono … la fanno per terra.

Saluto con i nervi queste maestre che dovrebbero amare, e ci dirigiamo verso il comedor.
Il caldo mi debilita, la pressione mi scende improvvisamente e mi ritrovo a boccheggiare su una sedia.

lunedì 12 novembre 2007

Pablo Neruda

12 novembre 2007

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, il colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

venerdì 9 novembre 2007

E Loro?!?

Arriviamo alla mensa.
Carmen aspetta a casa, sta male: “Ha bevuto acqua cruda!”, dice la nonna.
“Ma come, ma lo sa che non si fa!”, rispondo io esterrefatta.
Una delle prime regole è di non bere assolutamente l’acqua non clorata o non bollita.
Bussiamo a casa sua.
Esce, il viso contratto per i dolori di pancia, sudata, ma fredda.
Le diamo Ciproxin per le coliche, le dico che non deve bere l’acqua così.
Annuisce, si vergogna, poi mi viene in mente casa sua.
Quattro mura di legno, un odore pestilenziale all’interno; nel retro, all’aperto, terra umida e bidoni d’acqua ammassati a casaccio.
Da uno di quei bidoni, lasciati tutto il giorno alla mercé di animali, lei aveva bevuto.

Iniziano ad arrivare i ragazzini della “secondaria”.
Li facciamo mettere in fila: oggi c’è la campagna medica.
Prelievo del sangue, misurazione di altezza e peso.

Vedo le procedure, la dottoressa non si mette nemmeno i guanti, glieli portiamo e la invitiamo a metterseli. Un minimo di rispetto per queste vite.
Vedo le siringhe, gli aghi.
Forse in Italia c’erano negli anni Cinquanta.
Io sarei morta.
Faccio coraggio a qualche ragazzina più agitata, ma non guardo quando l’ago entra nel braccio, non riuscirei a stare in piedi.

Il tempo trascorre, quelli che terminano con i dottori si spostano alla mensa e mangiano tranquilli, parlando di quanto gli ha fatto male l’ago, quanto pesano, di quanto si sono alzati.

Arrivano quelli della “primaria” e iniziano a piagnucolare per la paura.
Non posso dare loro torto, ma probabilmente è per loro l’unica possibilità di farsi fare l’esame del sangue.
Devono farlo.
“Come ti chiami?”
La ragazzina risponde timidamente.
“Quanti anni hai?”
Silenzio.
La bimba ride timidamente, non sa quanti anni ha, ma solo il giorno e il mese del suo compleanno.
Per fortuna Enrico sa la loro età e aiuta i medici a classificare tutte le creaturine.
Viene anche Jerson, uno dei tre fratellini che mangiano qui.
La sua situazione è terribilmente angosciante.
Non hanno padre e la loro mamma è gravemente malata e non può lavorare.
Storia già sentita, si!
Intanto i bambini senza questa mensa non mangerebbero.
Il problema è che non ci sono fondi per accogliere tutti i bambini che necessitano l’aiuto dell’associazione di Enrico.
Ogni bambino è infatti adottato da qualche italiano che dona 30 euro mensili.
Lui è uno dei dieci bimbi che non hanno ancora trovato una persona disponibile ad adottarlo, ma hanno una situazione talmente tragica che Enrico non ha saputo chiudere gli occhi e sperare che arrivasse un padrino ad adottarli, e li ha accettati al programma di alimentazione.
“Ovviamente non si può andare avanti così sempre, mi dice, devo assolutamente qualcuno che paghi per loro, perché non posso accollarmi tutto io, non sono un miliardario”.
Dico che conosco molta gente, che se si mette insieme in piccoli gruppi, con cinque euro al mese può adottare un bimbo.
Lo spero.
Passerò la voce.

Parlo con Roy, suo padre è morto da 10 anni, lui ne ha undici.
Non si ricorda di lui, ma sente la mancanza di un padre.
Nei suoi occhi, i quali i primi giorni non mi guardavano nemmeno, leggo richiesta di amore, di aiuto.
Mi si stringe il cuore, lo guardo con l’amore che posso donargli, lo ascolto.
Anche lui non ha il padrino, anche lui è uno dei ragazzini a rischio perché per lui non c’è nessuno che paghi.
Sarebbe così facile, e allo stesso tempo così inutile.
Inutile per il loro futuro. Per un futuro migliore.
Questi bambini sono destinati a lavorare per la strada, anche con un titolo in mano non cambia molto.
L’istruzione è talmente limitata che anche volendo andare in un altro paese, il loro titolo di studio non varrebbe.
Questa è la tristezza.