lunedì 3 dicembre 2007

A comunidade de recuperaçao 2




Arrivata alla comunità maschile, ho avuto uno shock nell’osservare come i volti degli uomini e dei ragazzini fossero differenti tra loro.
Alcuni degli “ospiti”, si chiamano così quelli sotto trattamento, non mostravano assolutamente i segni di una vita dedicata alla droga, alcuni di loro li ho addirittura scambiati per i gestori del posto, per gli educatori.


“Domani vado a casa!”, ha detto a ianete uno dei ragazzi.
“Ho paura, sai, mio padre è stato il primo che mi ha messo in mano la droga, mio padre è stato colui che mi ha insegnato a sparare, il primo con cui ho ucciso un uomo!”.
La mia faccia ha mutato espressione, e la gioia che provavo nel vederlo felice si è tramutata in terrore per una vita che ha lasciato e presto rincontrerà.
“So bene che davanti alla droga adesso ce la posso fare a dire di no, ma non datemi una pistola perché so bene che ucciderò ancora!”.


Mi sono chiesta che colpa ne ha lui, perché tutto ciò è merito della gente che l’ha cresciuto.
Ho provato schifo verso suo padre, ma come sempre non potevo fare nulla.

“Cecilia, perché lo lasciate andare ancora a casa?”.
“cara Gaia, la sua vita è fuori, noi non possiamo certo tenerlo in cattività per il resto della sua vita! Purtroppo lui è uno che non ce la farà!”
Mi sono venuti i brividi, l’ho guardata con rabbia: “come puoi dire questo? Perché?”.
“Vediamo nelle parole, nel suono della voce, negli occhi chi ce la farà e chi no!”.
La mia rabbia mi ha dipinto il viso di rosso, non volevo sentire queste parole, andavano contro la sensazione di speranza che loro, i ragazzi, mi avevano infuso.

Mentre camminavamo verso casa ho pregato perché non fosse così, ma ho anche ringraziato Dio per la sua presenza che si sente tramite tutti coloro che lavorano gratuitamente per le vite in pericolo.

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