lunedì 31 marzo 2008

La scossa...

E’ sabato e l’unica cosa che avrei voluto fare era dormire, ma non ho potuto, perciò ora mi trascino in cucina cercando qualcosa da mangiare.
“Hai sentito la scossa del terremoto, stanotte?”, chiede Abilio.
“Ah! Ecco che cos’era!”, rido tra me e me, ricordandomi che stanotte mi sono svegliata di soprassalto pensando che qualcuno avesse bussato fortissimo alla porta, e spaventata avevo ripreso a fatica il sonno.
Inizio a comprendere perché mi sono alzata così male.
“Cosa farai oggi?”, chiede Argenis, la ragazzina che ospitano i padri per qualche tempo.
“Cerco di togliermi i pidocchi!”, rispondo io scherzando ed in quel momento sento un rumore fortissimo e vedo gli occhi di Argenis atterriti.
“Muoviti, usciamo all’aperto!”, urla lei.
La seguo divertita, comprendendo che si trattava di una scossa di terremoto.
Nel cortile si riuniscono tutti e tutti più o meno spaventati. Tutti tranne me che ammiro e guardo intorno la potenza della natura, l’immensità della forza che noi uomini non possiamo ancora contrastare.
Finisce la scossa e scrivo a Mauro: scusa, c’era il terremoto.
Altra scossa, di nuovo fuori.
Tutto passa e io mi siedo a parlare con i miei genitori e a litigare con il mio povero ragazzo, mentre inizio a sentire le mie gambe tremolanti, le braccia che tentano in vano di dimostrare una potenza che non hanno.
A fatica mi reggo sulla sedia, devo appoggiare il mio corpo al tavolo, alla scrivania.

Mi riprendo faticosamente, mi butto in doccia e rido per l’accaduto.
L’ilarità si spegne nel momento in cui mi ricordo che devo spazzolarmi i capelli e cercare altri pidocchi.
Il sorriso sparisce, si crea una smorfia di disgusto e procedo con il trattamento antipatico e doloroso.
Passarsi un pettinino con i dentelli strettissimi, non è un piacere di sicuro.
La maggior parte dei colpi di pettine risultano drastici per i miei capelli, mietendo vittime ogni qualvolta incontrano un leggero nodo.
Inoltre il pettinino è pensato appositamente per i pidocchi e per le uova, ossia, è da utilizzare a pelo del cuoio capelluto in modo tale da riuscire a recuperare le ipotetiche larve lasciate dal coinquilino abusivo.

sabato 29 marzo 2008

Con il gioco...

Mangio veloce e trovo nella zuppa un pezzo di carne e la cuoca che se la ride.
Mi arrabbio, vengo fraintesa da Abilio, mi sento le lacrime fuoriuscire e cerco di controllare il mio rossore.
Abilio continua la sua predica sul fatto ch’io non possa pretendere di avere un pasto personalizzato ogni volta eccetera, eccetera.
La mia voce si ferma in gola, non esce, il pianto la spezza, P. Luis mi difende, vedendo che le accuse erano effettivamente esagerate per quello che era successo.
Lascio la zuppa e mi mangio una mela.
Esco e mi lascio trasportare dai pensieri di cambiare casa, di andarmene, ma poi vedendo i bambini che aspettano solo di giocare, tutto passa, tutto se ne va.
I bambini giocano a calcio con Mario ed io a pallavolo e asino con le bambine.
Anche qui vedo la differenza tra maschi, felici di giocare, presi dalla partita, e le bambine, più deboli e restie a muoversi.
Torniamo al comedor per fare i compiti, Yeferson mi abbraccia e si fa coccolare da me, si siede sulle mie gambe e io lo coccolo come fosse un bimbo di tre anni.
La sua mamma lavora dalla domenica al venerdì in casa di una signora e lui vive solo con i fratelli appena adolescenti.
Si comporta come un ragazzo già grande, indipendente, ma ci sono giorni che i suoi occhi sciolgono il mio cuore, che solo con lo sguardo mi chiedono attenzione.
In questi momenti mi sento male al pensiero di abbandonarli per sempre tra pochi mesi.
Ma cosa devo fare?
Stare qui o tornare?
Rileggendo i diari dei primi tre mesi qui in Perù, mi accorgo che ho fatto un sacco di passi avanti.
Il desiderio di realizzare qualcosa per loro, qualcosa dove potessi investire tutta me stessa, l’ho realizzato ed ora sono così impegnata in questo che mi sembra di non aver mai vissuto l’angoscia data dal sentirmi inutile e quasi inopportuna qui.
Ce l’ho fatta, ho creato dal nulla qualcosa per loro, senza nemmeno rendermene conto sono diventata la loro mamma. E tutto ciò lo si vede nelle mille voci che mi chiamano ogni secondo, che non mi lasciano in pace un attimo solo, anche se ci sono altri adulti lì ad aiutarli.
Mentre mi allontano con Mario, e i bambini mi salutano, la mia mente vola già a lunedì, quando sarò ancora con loro.

giovedì 27 marzo 2008

Seconda piaga: i pidocchi!

Arrivo al comedor e i bimbi mi salutano con gioia, come se non mi vedessero da molto tempo.
Iniziamo le lezioni, Arturo inizia con la quindicina di bambini più piccoli, Mario invece si occupa di quelli più grandicelli.
Io faccio l’appello e controllo che tutto vada per il meglio. I bambini non riescono ancora a capire che durante le lezioni non devono fare riferimento a me, ma ai professori.
Non mi mollano un solo istante.
Esco fuori un attimo, per parlare con le madri di due ragazzine e mi arriva un messaggio. Prendo il cellulare e chino la testa per leggere, è Mauro che mi scrive uno dei messaggi più belli che io abbia mai ricevuto, ma il tutto viene rovinato dalla frase della madre di Yanira: “mi scusi se glielo dico, signorina Gaia, ma lei ha i pidocchi!”.
Inizio ad urlare e a tirarmi colpi sulla testa, mentre le due signore rimangono attonite a guardarmi. Cercano di calmarmi e provano ad avvicinarsi. Con le loro manine sudice mi toccano i capelli e mi tolgono delle cose marroncine. Quasi svengo quando mi dicono che sono le uova, ma sono secche perché non scoppiano. Il che vuole dire che è già da tempo che sono li.
Il tutto mi mette un disagio allucinante, non voglio contagiare nessuno, ma solo fiondarmi dalla farmacista e chiederle consiglio. Non posso ancora andarmene però, quindi resto al comedor e ne parlo con Arturo e Mario, il quale mi risponde: “menomale, adesso sì, veramente vivi con i poveri!”.
A questa frase il cuore sorride e quasi mi sento felice per i pidocchi, continuando a crederli piccolissimi e quasi invisibili.

Arrivo a casa, dopo aver comprato lo shampoo, e comunico al mondo che ho i pidocchi, che non so come togliermeli, che qualcuno mi aiuti.
Padre Luis, sempre disponibile in ogni circostanza, mi dà una mano e dopo mangiato si apposta in camera mia con una federa bianca sulla quale dovrebbero cadere questi esseri orrendi.
Mi faccio lo shampoo, lascio che faccia effetto e poi sciacquo con la paura di riempire il lavandino di cadaveri neri.
Nulla!
Inizio a spazzolarmi i capelli con un pettinino a denti stretti e mi strappo metà capigliatura, decido di procedere con la spazzola, e … cade un animale grande mezzo centimetro circa, tutto nero.
“Padre, guarda!”, urlo io con la faccia contorta dal disgusto.
“No, no sarà sierto questo il pidochio! Sono molti più piccoli, i no sierto così!”, mi risponde in un italiano curioso.
Corre in camera con l’insetto e torna con i nuovi occhiali da presbite.
“Ah, già. E’ proprio questo il pidochio!”, afferma contento, lasciandoselo camminare sulla mano.
Svengo!
“Ma non è mortoooo!”, urlo.
Ma allora lo shampoo non fa alcun effetto.
Mi metto con il pettinino a raschiarmi la cute, provocandomi graffi, ma tolgo le uova.
La cosa più orrenda sta nello schiacciare queste micro parti: se scoppiano significa che ho appena ucciso un feto di pidocchio.


Mi chiedo se non sarà stata proprio la figlia della signora ad avermi attaccato il parassita!

martedì 25 marzo 2008

Intrugli

La notte è stata lunga e sofferta, lo stomaco non da segni di miglioramento e il caldo certo non aiuta le membra stanche e affaticate a godersi un riposo più o meno meritato.
L’odore nauseabondo del ramato che Bico spruzza sui fiori davanti alla mia finestra entra silenzioso nella mia stanza.
Non serve chiudere porte e finestre, quel pesticida orribile ormai si è impossessato della mia stanza e se ne andrà solo tra molte ore.
Ripercorro con la mente la stradina che mi porta a la Era, i miei bambini che mi corrono incontro quando vedono la mia sagoma avvicinarsi; i mille cani randagi che scorrazzano senza meta in cerca di cibo.

La mattinata passa abbastanza velocemente, finalmente riesco a vedere la faccia di mauro su Skype, finalmente riesco a parlare con lui per pochi minuti prima che inizi a lavorare.
La giornata non è delle migliori, a parte i dolori allo stomaco che piano piano mi lasciano sempre più in pace, le nuvole grigie li fuori non danno presagio di buone cose.
Odio la pioggia e quella di Lima più che mai. E’ praticamente inesistente, ma quando arriva non si fa sentire come un bel temporale estivo, con scrosci e tuoni, no, si presenta quasi impaurita, ma insistente e fitta, si tratta di una fastidiosa pioggerellina che ti inumidisce la pelle, più che bagnartela e che te la togli dalla testa spolverandoti i capelli.
Le donne della casa sembrano più preoccupate di quanto sia necessario.
A turno si prodigano in consigli più o meno efficaci, alla fine accetto di bermi/mangiarmi un intruglio odorante di cannella, ma senza molto sapore, che consiste in riso bollito fino a decomporsi, carote e mele, cannella e chiodi di garofano.
Il tutto mi nausea e mi aggiunge un feroce mal di testa, credo di essere diventata allergica alla cannella, perche anche ieri il the con questo aroma mi ha provocato mal di testa.

lunedì 24 marzo 2008

Maledetta pancia.

Il triduo pasquale si è svolto sereno e veloce, quasi in silenzio, a comparazione di quello che sono abituata a vivere la in Italia.
Sarà perché le messe iniziavano alle 7 e non alle nove, perche subito dopo si correva a casa a mangiare invece di aspettare fuori dalla chiesa le facce conosciute con le quali scambiare due chiacchiere, sarà perché le facce conosciute sono molte di meno relativamente a quelle che conosco a Milano, sarà perché qui fa caldo e alla messa si va in canottiera, oppure perché qui quasi si festeggia di più il Signore dei miracoli che non tanto la Resurrezione.

Mi sono poi trovata a leggere il libro che Mauro mi ha regalato e ho trovato spunti di riflessione interessanti, più stilistici che di contenuto, senza nulla togliere comunque alla meravigliosa storia che narra.
Le descrizioni dei paesaggi, passi che anche Mauro mi aveva sottolineato, sono condotti da una voce attenta e consapevole, di chi vive e vede con occhi, ma anche con il cuore mondi per lo più dimenticati, abbandonati nella memoria dei vecchi, circoscritti a una limitata setta in via d’estinzione.
Mi sono ritrovata nella sua funzione di narratore di mondi, nel mio piccolo.

Il malessere non passa, le ossa mi fanno male e la testa accoglie qualsiasi sussurro come chiasso frastornante, lo stomaco non da segni di miglioramento ed il cuore rimane un po’ provato dalla conversazione con il mio ragazzo.
Non so che mi succede, non capisco perché, senza saperlo, divento una vipera (come dice mia mamma) e lo accuso di mancanze che probabilmente sono frutto della mia immaginazione.
Mi cullo in un timore senza senso, allontanando la persona che amo.
Mi dico che è la distanza, il poco tempo che abbiamo avuto per stare insieme, vicini.
Sollevo gli occhi dalla tastiera e vedo le foto che ho appeso al secondo giorno di distacco, sono divise per file: quella più in basso riporta il suo volto, il mio ed i nostri in tre stampe in bianco e nero; salendo altre tre foto dove siamo insieme e ci guardiamo sorridendo, queste a colori; poi arriva il piano degli affetti più maturi, madre, padre, Luciano e l’intera famiglia; più in alto ancora una foto mia con Filippo, una con Valentina e un’altra con Mirko, Fede e Paolo.
A volte vorrei che tutti loro fossero qui, per respirare la polvere, sentire l’odore di spazzatura e cibo marcito, per vedere gli occhi della gente che inevitabilmente ti segue con lo sguardo da quando ti nota fino a quando ti perde di vista; a volte vorrei che stessero con me mentre i bambini sorridono, mentre urlano, mentre mi guardano con occhi malandrini dopo aver commesso un “peccatuccio”.

Le zanzare continuano ad avventarsi su di me, credo ormai di avere almeno una trentina di punture circoscritte ad alcune parti del corpo: pancia, cosce e spalle: mi chiedo con che razza di fantasia mi abbiano punto, visto che sono le tre parti più coperte che ho.
Mentre le dita si muovono veloci sui tasti, il caldo stordente non mi abbandona neanche un minuto, mi soffoca con la sua vicinanza, mi debilita con la sua insistenza.
Mi impongo di prendere quelle famose medicine anti tifo che fin dal precedente viaggio avevo sempre rifiutato.
Attendo l’effetto che non tarda a farsi sentire.

Ah! Inka Inka...

Mi sveglio dopo una notte passata a voltarmi e rivoltarmi nel letto senza avere pace, sognando disgrazie che mi sarebbero capitate, volti che conosco, che mi volevano uccidere.
Alla fine mi alzo sconcertata e capisco che tutto questo è dato dal mio malessere: ebbene si, ancora una volta la Vendetta dell’Inka si è riversata su di me.
Mi tirò in piedi a stento e, tra i dolori,arranco verso la cucina.
Mordo lentamente un pezzo di pane e bevo un caffè sperando in un miglioramento.
Niente da fare, capisco che oggi avrei veramente bisogno di un sostituto la dai ragazzini, ma ora è tardi, non riesco a rintracciare nessuno.
Esco di casa seguita dai rimproveri di tutti quanti, in silenzio mi chiudo la porta alle spalle e aspetto il combi giallo.
La pressione è bassissima, mi sento svenire, ma la sagoma del mezzo di trasporto all’orizzonte mi regala un sollievo quasi palpabile, mi riprendo e salgo.
Il viaggio non è dei più tremendi e arrivo a La Era intatta, cerco di dimenticare i vari acciacchi e mi sistemo aspettando i ragazzini.
Arrivano tutto sommato puntuali e con loro il professore, sono contenta di vedere gli sforzi di tutti anche se non riesco a godermi il tutto, visto il malessere che peggiora di minuto in minuto.
Faccio qualche calcolo e qualche rosario perché il tutto proceda secondo i miei piani e lascio il progetto in mano ai professori e a Mary Cruz, la responsabile del comedor.
Non avevo assolutamente preventivato di lasciare tutto nelle loro mani, solo la seconda settimana, ma così ha voluto il “caso” e io mi attengo al suo volere, anche perché altro non potrei fare, visto che le gambe mi cedono, la testa mi esplode e la pancia da segnali di cedimento.
Il caldo atroce mi fa da compagno, mi bagna di salate goccioline, mi toglie il respiro ed accompagna le mie palpebre verso il riposo.
“Bajaaa!”, urla il ragazzo dei biglietti.
Apro gli occhi e mi ritrovo davanti a casa.
Sollevo il mio corpo diventato troppo pensante, pur avendo perso 4 chili, e mi lascio scivolare attraverso la porticina, fino a toccare lo sterrato.

Primo giorno della seconda settimana, primo giorno in malattia.

giovedì 20 marzo 2008

Il silenzio di pochi...

Anche stamane i ragazzini sono puntuali, forse hanno imparato qualcosa dalla sgridata del primo giorno.
Quando finiscono di fare i compiti, mi allontano verso le case, verso la gente, quella stessa che sa che esisto, ma non viene a bussare e a chiedere, non mi sorride perché vuole ricevere, ma silenziosamente partecipa spiritualmente al lavoro che sto facendo ed io la ricambio portando un po’ di allegria a casa sua.

Vado a visitare la madre di Andres e Daniel, sperando stia bene. La sua bocca conta di tre o quattro denti, e non sto parlando di una vecchietta, ma di una signora di 35 anni.
Le gengive sanguinanti, le mani gonfie che si scontrano visivamente con il corpo pallido e senza carne.
Sorride quando mi vede, ma dentro terrà tutta la preoccupazione della sua vita che piano piano si spegne e che lasciando i suoi due bambini.
Il piccolo Andres, mi dice, afferma che verrà con me quando io non ci sarò più!
Le sue parole mi lasciano impietrita e non so che espressione fare senza risultare stupida e superficiale.

Altra visita di oggi alla madre di Erikson, un bimbo veramente capace, un personaggio estremamente piacevole, interessato, purtroppo un po’ troppo vivace, ma assolutamente partecipativo.
Ha un negozietto davanti alla sua baracca e mi offre 4 mandarini e un’arancia.
Dice che io le offro molto, per quello che faccio con suo figlio.
Ci sono per fortuna persone che rispettano il lavoro che sto facendo e sono riconoscenti.

18 marzo 2008, second day.


Alle 9 del mattino già compaiono i primi ragazzini, assonnati, e con il broncio che sempre li contraddistingue.
A differenza dei bimbi, questi adolescenti abbandonati a se stessi hanno sviluppato un certo distacco verso le persone più grandi; noto con tristezza una freddezza e una timidezza rara, alienante: arrivano, mugugnano un saluto, si siedono, trascinando davanti a se lo zainetto che non ha nulla a che vedere con le cartelle dei nostri adolescenti piene di libri pesantissimi.

Arriva Karol, la professoressa di matematica di Miguel Grau.
Un tipino distinto, socievole e sorridente. Si presenta al gruppetto poco omogeneo per vari aspetti e, con molta difficoltà inizia ad aiutarli nei loro compiti.

Alle 10, puntuale, arriva Rene, il diciassettenne che aiuta i ragazzini in matematica e fisica.
Seguo anche io la decina di adolescenti che faticano a stare al loro posto e mi sento già stanca dopo due ore.
Alle 11.30 mangiano tranquillamente e si allontanano per andare a scuola.





I più piccoli arrivano a mangiare ed in coro chiedono a che ora sarebbero arrivati i professori. Ho un po’ di timore visto che oggi avrò a disposizione solo una professoressa e dovrò inventarmi assolutamente qualcosa da fare nell’ora seguente.
Infatti mentre Angelica terrà per un’ora un gruppo io sarò impegnata con un’altra quindicina di pazzi scatenati.
Me la cavo egregiamente estraendo dal borsone una ventina di bottiglie di plastica. Con queste abbiamo creato dei porta candele.
Per questa ora, ringrazio mia madre, fonte di idee per lavoretti manuali adatti a tutte le età.


martedì 18 marzo 2008

Le elementari: matematica, educazione civica, teatro.

I minuti passano ed io faccio in tempo a respirare un po’ di polvere pensando a cosa io stia facendo qui, a quanto sto faticando e quante poche soddisfazioni io stia incassando.
I pensieri negativi mi restano nel cuore solo pochi minuti, giusto il tempo di accorgermi che i bambini, circa 26, sono davanti alla porta ad aspettare che io li faccia entrare.
Allora la mia mente si svuota delle delusioni appena provate e si riempie di buoni propositi per le ore a seguire. Dal mio letto rivedo la giornata, i suoi pro e contro, e ringrazio Dio per avermi mandata qui.
Lentamente con la stanchezza che si impossessa dei miei occhi e delle mie dita, mi passano le immagini della giornata: le tre ore con i professori, le richieste di restare quando questi se ne dovevano andare, la cena, ancora a base di riso e uovo ed il corso di teatro, terminato alle 9 di sera.
L’aula era una sauna, i trenta ragazzini di dimenavano a ritmo di musica ed il maestro rideva e cercava di non impazzire.
Una giornata durata 13 ore e mezza, ricca di sorprese, piena di speranze per il domani.
Così sono i bambini, un giorno ci sono e l’altro no, il tutto sta nel farli diventare capaci di essere costanti nello studio ora, nella vita poi.
Un grande progetto che non riuscirei mai a realizzare da sola, ma si potrei riuscirci per i validi collaboratori che mi sostengono e per il grande collaboratore che qui chiamano “Quello di sopra”.

17 marzo: si comincia sul serio!

Oggi è il primo giorno, oggi inizia il progetto!
Sono emozionata, alle 6 mi butto giù dal letto e alle 8 sono già nel mio piccolo mondo fatto di terrà, polvere e spazzatura.
Aspetto i ragazzi di secondaria, ma chiamiamola “medie”; il mio cuore batte fortissimo, faccio le scale, che portano dalla biblioteca al comedor, almeno una cinquantina di volte.
Attacco il cartellone che Mauro ha realizzato con l’aiuto dei miei fedeli amici Daniel, detto Giovanni, e Arturo, detto Pepa.
Sono già le 9.30 e nessuno viene, inizio a disperarmi, anche se Gustavo e Juana mi dicono che è così con i ragazzi, che non mi devo preoccupare, che tutto andrà per il meglio.
Intanto l’orologio segna le 10.30 ed io sono immersa a stilare elenchi di ragazzini fantasma, sicura che prima o poi sarebbero arrivati.
Le 11.30 arrivano in fretta e io sono già stanca, stanca per aver aspettato, stanca per lo stress di aver avuto un professore che aspettava ragazzini mai venuti.
Scendo nel comedor e me li vedo apparire uno ad uno e il mio sguardo la dice lunga.
Si siedono mi osservano, sanno che sto per parlare.
Il mio discorso risulta d’impatto, non riscuote applausi certo, ma sicuramente domani ci saranno alunni in classe con il professore.
Insomma, si sono dimenticati!
Come è possibile? In Italia una madre avrebbe pensato bene di ricordarglielo, invece in Perù una madre pensò bene di scendere per chiedermi soldi, altri soldi, come se fossi la banca del Vallecito.
I ragazzi si scusano e si impegnano a venire il giorno seguente ed il mio buon cuore, e non solo quello, concede loro l’opportunità supplicata.
Alla 1 iniziano ad arrivare quelli delle elementari, chiamiamo così il corso di studi relativo ai ragazzini tra i 6 e i 12 anni.
“Segnorita Gaia, oggi iniziano le lezioni, vero?”, la loro voce mi sale alla mente come l’arcobaleno dopo la pioggia.
Sorrido annuendo ed entro a mangiare con loro.
Mentre nei loro piatti galleggia il povero polletto, io mi accontento di un po’ di riso e uovo.
Annuncio a tutti che alle 3 in punto le lezioni sarebbero iniziate.

domenica 16 marzo 2008

Averlo capito prima!

Non era così difficile, anche da noi esiste "fobice, sasso, carta", o come dir si voglia, ma non l'avevo capito...

All'inizio i bambini mi parlavano come se non capissi nulla, ma ormai sono una di loro ed è ovvio che io sappia alla perfezione ogni sfumatura espressiva.

Peccato che la maggior parte dei bimbi della Era comunichino con una forte percentuale di vocaboli slang, questo non mi permette di comprendere in modo immediato ciò che vogliono dirmi.

Imparerò anche lo slang peruviano.

venerdì 14 marzo 2008

Estefany...


Ambra, Vittoria...
... questa è per voi!
Spesso vado a casa sua, è davvero un amore!
Sono un po' in difficolta, ma se la caveranno, non c'è molto da cambiare qui.
E' una bambina dolcissima, mi piacerebbe presentarvela.
un bacio.

La partita di calcio

Entro e le voci dei bambini che pronunciano il mio nome si mischiano tra loro, come se non mi vedessero da molto tempo, forse Mari deve aver detto loro che sono stata male.
Sono felice di vederli e propongo loro di trovarci alle 15.00 per giocare nel campetto, pur sapendo di dover stare fino alla sera a dipingere le lavagne!
Passa un’ora e dovrebbero essere tutti qui, invece si presenta solo Andres.
Decidiamo di andare a cercare Yefferson e lo troviamo con altri ragazzini all’internet point, mi domando con che soldi.
Lo rimprovero, non avendo confidenza con gli altri e lui mi dice che non vuole giocare a pallavolo, ma a calcio, così andiamo al campo di cemento: io e una decina di ragazzini.
Mi metto in un angolo a fare le foto finche uno, incuriosito dalla mia presenza, mi chiede di giocare con loro. In un attimo le due squadre si contendono la mia persona e vengo acquistata da quella di Andres e Yefferson.
Dopo la partita avviso che me ne sarei andata a breve. In pochi istanti si siedono sul cemento ed iniziano a farmi domande, a chiedere delle case la, di cosa si mangia, di quante lingue so, di quanto costa questo e quello e di come mi sono inventata la “cara mas fea”, la smorfia che faccio.
Sono felice di dare risposte e farmene dare, alla fine inizia a piovere ed io mi stupisco: la prima pioggerellina che cade su di me a Nana.

Li saluto e scendo verso la casa delle suore, li mi metto a dipingere le due assi di legno che ci serviranno da lavagne. Le mie unghie si impregnano di vernice nera e l’acqua ragia non basta per tirarmi via tutto lo sporco, me ne vado così: con le unghie nere e le mani che mi bruciano per l’acido, ma con il sorriso.

giovedì 13 marzo 2008

Dov'è la mia vita?

Il giorno dell’inizio del progetto si avvicina ed ovviamente, al posto di essere sana come un pesce e scattante come una gazzella, sono seduta su una sedia, anelando il letto, con tutti i mali possibili che ti vengono quando si raggiungono paesi come il Perù.
Avrei dovuto andare a Lima con Mario e far stampare il cartellone che Mauro mi aveva preparato.
Invece no, Mario da solo non è andato e io con lui non potevo andare, perciò la stampa si rimanda, come un po’ troppe cose in questi giorni.
Il mio stomaco non migliora, mi peso e noto che la bilancia segna tre chili in meno di due settimane fa.
Luciano è partito per un mese ed io mi ritrovo sola, anche se non sono angosciata da questo.
Vado in cucina e quasi svengo, così Zoila mi accompagna di nuovo a letto.
Verso le quattro chiamo Arturo che mi porta in moto al negozio della Claro, la mia nuova compagnia telefonica.
Ricarico il cellulare e finalmente posso mandare messaggi in Italia.
Il mio primo pensiero va a Mauro, gli faccio uno squillo e mi arriva subito un suo messaggio meravigliato per il nuovo mezzo che farà parte del bagaglio comunicativo in questi 5 mesi prima che lui mi raggiunga.
Arturo mi porta a Huascata, dove dall’alto vediamo il panorama spoglio, inquieto e povero della parte del Perù che io più amo.
Salendo un gradino mi sento di nuovo male perciò mi faccio riportare a casa e parlo con Mauro per un’oretta.
Il rapporto a distanza, con questa distanza, non solo chilometrica, ma di orario e, soprattutto, esperienziale, sta risultando più difficile del previsto.
Il rapporto resta congelato per lui, mentre io non mi capacito della possibilità di mantenere i miei sentimenti stabili, temo un distacco, necessito la sua presenza, penso a che fare della mia vita.
Da una parte voglio che arrivi agosto per vederlo, dall’altra non voglio ritrovarmi in quella data perché so che coincide con la fine della mia esperienza qui.

Mi addormento distrutta, dopo aver giocato a fare la mamma con i figli di Arturo.

Martedi 11 marzo

Stamattina mi sono svegliata con i soliti dolori di stomaco che mi attanagliano quando sono stressata.

Sono uscita presto di casa e sono stata tutto il giorno a La Era. Li, con l’aiuto di Gustavo e di Mari Cruz abbiamo spuntato la lista dei bambini e abbiamo notato che alcune madri avevano iscritto tutti i loro figli, compresi cugini, vicini e amici.
Ne abbiamo scartato qualcuno, partendo da quelli che non sono del comedor, poi ho chiesto come avrei potuto fare per avvisare le madri.
Il megafono è disponibile solo al mattino, quindi avrei dovuto cercare le madri una per volta nelle loro case, così ho fatto.
Dopo due ore in giro per il Vallecito, mentre cercavo una famiglia, ho bussato alla porta di una baracca che pensavo fosse di proprietà della signora con la quale dovevo parlare.
Mi apre un ragazzetto e mi dice che si sono trasferiti più in basso, mi ha accompagnato gentilmente ed io ho lasciato detto alla sorella maggiore che solo uno dei suoi fratellini avrebbe partecipato al progetto.
Sono tornata con il mio accompagnatore che mi ha riempito di domande.
Gli ho spiegato cosa stavo facendo, e gli ho chiesto se conoscesse qualcuno disposto a dare lezioni di matematica.
Così mi sono ritrovata in casa di una delle madri dei bimbi più piccoli, di fronte al figlio maggiore che si è offerto di aiutarmi con le benedette lezioni di matematica.
Siamo stati a parlare per due ore, in piedi tra i sassi brulicanti di formichine, ed io ho sentito la mancanza delle comodità cittadine: un bar, il mio Boh.
Mi hanno raccontato della loro vita, di cosa fanno durante il giorno, dei loro sogni di studiare e di migliorarsi, senza però scappare dal loro paese.

Lunedi 10 marzo

Cos’è successo alla riunione dei genitori!

Si sono presentati tutti e anche di più.
Ovviamente in ritardo, ma è stata comunque per me una sorpresa inaudita.
Ho parlato e anche bene, con qualche momento di silenzio e qualche risatina da parte delle comari attente ad ogni mio movimento.
La suora ha raccolto i nominativi e le madri si sono congedate, dopo ben un’ora e mezza di riunione.
Non c’era nemmeno un padre, e ridendo l’ho sottolineato: con la mano ho fatto il tipico gesto per dire “meriterebbero due sculacciate”… si sono lasciate andare in pettegolezzi sugli uomini e risatine sarcastiche per qualche minuto, lontane dai padroni della casa e delle loro vite.

Io e la suora ci siamo trovate da sole nella stanza, che fino a due minuti prima ospitava rumorose presenze femminili e nel silenzio abbiamo contato i nomi degli iscritti.
Quasi svenivo quando Daniza mi ha detto “sessantatre!”.
Non potevo credere alle mie orecchie!

lunedì 10 marzo 2008

L'amour l'amour


Il combi è pieno e la mia schiena protesta duramente quando scendo dopo venti minuti di strada piegata quasi in due.
Arrivo al comedor e la decina di ragazzini di secondaria che stanno mangiando a stento mi salutano.
Non riescono a togliersi quel timore reverenziale che evidentemente si portano dietro dalla nascita, verso il “diverso”.
Scherzo un po’ con loro e raccolgo le iscrizioni, li bacio ad uno ad uno e mi congedo: devo andare a cercare questo benedetto professore.
Mi rivolgo l vecchio del villaggio, una persona duramente provata dalla vita, mi ricorda un po’ Giobbe e le sue disgrazie.
Insomma, lui è un cattolico fervente, la moglie pure, hanno sempre aiutato gli altri e la loro vita si è macchiata giorno dopo giorno di piccoli incidenti e gravi delusioni.
Dei loro 4 figli, tre sono nati con deficienza mentale, la moglie ora soffre di osteoporosi, la madre ultranovantenne non li ha ancora abbandonati, ma richiede attenzioni e cure continue, per finire i vicini gelosi – vi chiederete: di che cosa??? – l’hanno costretto a decidere di cambiare casa e lasciare il posto che l’ha cresciuto per l’intera sua vita.
Mentre mi parlava e mi diceva che non potrà aiutarmi perché è avanti indietro dagli ospedali per i suoi famigliari, nei suoi occhi leggevo serenità, calma assoluta.
Una dolcezza infinita le sue parole, accompagnate da espressioni di amore per Dio, per quello che gli ha dato.
Quanti spunti di riflessione mi da questa gente, quante domande che mi salgono alla mente e al cuore.
Io amo il Perù, amo questa gente che lotta senza respiro, amo anche quelli che si lasciano abbattere dal quotidiano, si anche loro.

Torno al comedor e i Paulo, uno dei bambini nuovi, mi chiama per nome.
Arriva anche Jefferson e si siede vicino a me, lo accarezzo e poco dopo mi ritrovo con la sua testa appoggiata sulle mie gambe con la sua manina che mi tiene stretta la mia.
Come faccio a non innamorarmi dell’amore? Perché è di amore che si parla, solo l’amore ti spinge a fare cose fuori dal normale e dedicare sei mesi della mia vita a dei bambini sconosciuti fino a pochi mesi fa, è sicuramente annoverabile tra le cose fuori dal normale.
Mangio al tavolo con Gianela, finalmente dopo mesi, le strappo un sorriso.
Tutto ciò lo insegna il Piccolo Principe: le persone si “addomesticano” piano piano, ma attenzione! Una volta addomesticate bisogna prendersene cura, non ci si può permettere di non “annaffiare” il rapporto, di lasciarlo morire.
Così mi chiedo, che ne sarà di questi rapporti una volta sparita dal Perù.
Vado a casa, ho due orette, poi dovrò essere di nuovo li per la riunione con i genitori.

Speriamo!

Sveglia prestissimo, chiacchiero con Mauro, aspetto che venga Mario, il professore di matematica, non che grande amico, per parlare dei vari punti interrogativi riguardanti il progetto.
Puntuale come sempre suona il campanello e con il suo solito passo allegro e pieno di vita viene verso la mia stanza.
Lo aspetto sorridendo e mi rallegro quando intendo che non riceverò nessuna predica, ma solo confortanti parole.
Mancano ancora due professori per i ragazzi di secondaria, mentre quelli di primaria già hanno il loro programma ben definito.
Le mie paure si riversano sul personaggio giocondo che mi da la sua piena disponibilità per qualsiasi cosa.
Guardo i suoi occhi e noto uno più chiuso dell’altro.
“Vuoi il collirio?”, gli chiedo.
“No, è l’amore, ma un amore impossibile!”, risponde rammaricato.
“Ieri, mi racconta, mi si è avvicinata una mia amica e mi ha detto che si è innamorata di me, ma è sposata, ha due bambini. Tu credi Gaia che con tutti gli sforzi per essere un uomo migliore, vado a cadere proprio in questo?”.
Lo guardo con dolcezza e gli trasmetto la mia stima, senza parole, solo con gli occhi.

Mi dice di non preoccuparmi per i professori, che salterà fuori qualcuno, che sicuramente Dio ci aiuterà.
Speriamo, ma Dio, io mi chiedo, non ha altro da fare che ascoltare da 25 anni la mia voce?

sabato 8 marzo 2008

Feliz dia, Mujer!

E' la festa della donna anche qui.
Ma qui niente mimose, niente profumo intenso che riempie le case, i pub, i ristoranti in Italia.
Qui è esattamente tutto normale, tutto come sempre.
Non ci sono donne che escono tra donne, perché senno il marito come mangia?
Non ci sono feste organizzate, chi ha i soldi per farlo?
Non ci sono manifestazioni a favore del gentil sesso, chi ha il potere per attuarle?

Tutto resta uguale.

Luciano è da due giorni che insiste con delle rose rosse per tutta la comunità di Moron Chico.
Finalmente le trovo, ne compro 50, spendendo 20 soles, ovvero 5 euro.
Mi dedico a ripensare alla riunione di ieri sera, al progetto che sta per iniziare, ai mille punti interrogativi che ogni minuto affiorano alla mia mente.

Ieri notte ho radunato i professori, sembravano entusiasti, non credevo ai miei occhi!
Abbiamo pregato e la cosa che mi ha lasciato stranita e onorata è che in ogni loro preghiera veniva nominato il mio nome.

Come al solito ricevo molto da loro, ma credo di stare dando tanto allo stesso tempo. In molti mi hanno ringraziata per la presenza, perché, che una persona di un altro paese venga qui e si accolli i loro problemi, è una cosa insolita, che li obbliga a riflettere sul loro atteggiamento spesso di chiusura egoistica rispetto ai loro vicini.
Mi rallegro e comprendo che un progetto solo non fa nulla, ma un progetto dettato dall’amore, da Dio, trasmette amore anche involontariamente, generando necessariamente sempre nuovi fruitori e beneficiari.

A casa di Andres


Passo dalla casa di Andres, dove trovo la madre in condizioni migliori di quando l’avevo lasciata.
Mi fermo qualche minuto a parlare con lei e le lascio un po’ di soldi per comprare le medicine, troppo costose per lei, ma necessarie.
Purtroppo soffre di una rara malattia che qui non sono riusciti a classificare.
La povera mamma sta perdendo i denti, soffre di convulsioni, a volte si paralizza completamente; solo grazie a queste medicine sta effettivamente migliorando, anche se sa bene che non potrà guarire.
Non è ancora riuscita a comprare i quaderni e il materiale necessario per Andres.
“Andres, ti va di fare un giro con me fino a Puerto?”, gli chiedo, senza prima rivolgere la domanda alla madre.
Mentre Andres si cambia, la madre mi comunica tutta la sua riconoscenza e la felicità che prova nel vedermi ancora qui.

Ecco che si presenta Andres, con le scarpette pulite e la maglia appena lavata, gli sorrido e ci incamminiamo verso Nana.
Lungo la strada la gente mi saluta chiamandomi per nome e io ringrazio tutti nel mio cuore per farmi sentire a casa e felice continuo a camminare.
Un amico ci da un passaggio fino a casa, qui gli do un po’ di materiale per la scuola e una Inka Cola.
Poi usciamo e andiamo a Puerto.
Dopo un giretto e qualche dolce comprato lo accompagno al combi e lo saluto.

Lo guardo mentre si allontana e prego perché la sua vita possa essere migliore di quella che il suo destino ha preservato per lui.

Mi siedo per terra, stanca morta, davanti al negozio di Trebol.
Parlo con sua sorella che mi racconta della vita difficile che hanno passato e della rinascita solo dopo una dura lotta contro la miseria.
Arrivano Arturo, Jhon e Gerardo.
Restiamo seduti per una buon mezzora chiacchierando e bevendo birra, fino a che il sole sparisce e il buio si impossessa delle case, della strada e dei nostri discorsi.

venerdì 7 marzo 2008

Bruciata dal sole

5 marzo 2008


Colazione, preventivi, chiacchierata con Mauro,riassetto della stanza, pulizia del bagno: il tutto in quelle poche ore che intercorrono dal mio risveglio (6.15 del mattino) al momento in cui Juanita irrompe nella mia stanza dicendo di andare.
Dice che è meglio ora, che le famiglie adesso sono a casa ed è più facile trovare tutti quanti.
Usciamo così di casa nel giro di un minuto, scrivo a mauro rapidamente, purtroppo non ho molto tempo.
Arrivate al Vallecito iniziamo la nostra scalata verso la casa di alcuni ragazzini che hanno abbandonato la scuola per dedicarsi semplicemente ad oziare.
Bussiamo alla porta, chiediamo in giro se qualcuno sa dove siano, un bimbo seduto sulla soglia di casa sua, con il braccino magrissimo, mi indica il comedor popolare, dove effettivamente incontriamo la madre di Marcus, Hannibal e Yessenia.
Juanita fa accomodare alcune madri con i rispettivi bambini e mi lascia la parola.
Spiego brevemente il progetto e i bambini sembrano interessati, le madri più di loro.
Mi chiedono se non sia solo per i bambini che stanno alla mensa di Enrico (Sorriso per il Perù), rispondo loro che il programma è aperto a tutti, preferibilmente ai bimbi che hanno già compiuto i 13 anni.
Sembrano loro infatti quelli più a rischio.
Come in tutti gli adolescenti, si osserva in loro una mancanza di voglia di fare, una carenza nelle materie dove i prof sono più severi, un desiderio di fuga e ricerca di divertimento sfrenato.
Alzano la mano due ragazzine sui 14 anni e le iscrivo subito.

Ci alziamo dalle seggioline offerteci dalle signore della mensa popolare e ci incamminiamo verso altre case.
Il caldo è insopportabile, mi brucia le spalle e la faccia.
Riusciamo ad incontrare altre due famiglie e le avvisiamo della cosa che stiamo realizzando.

In due ore giriamo in lungo e in largo le vie del Valle, parlando con grandi e piccini, conoscendo un po’ più a fondo la piccola realtà della mia gente.

E’ la una e mezza e io sto svenendo di fame, inoltre avevo promesso a mauro di essere a casa per quell’ora.
Corro a casa, ma sono troppo in ritardo e Mauro è già andato via.
Un po’ di malinconia mi sorprende ed inizio a ragionare sul fatto che non è giusto che io abbia lasciato i miei impegni per vedere lui, che non è corretto ne per me ne per le persone che vivono qui con me.

giovedì 6 marzo 2008

5 marzo: il mio giorno libero.

Il mio giorno libero.
Il mio giorno libero lo passerò a Lima, facendo compere per i miei piccoli pulcini del comedor.
Il mio giorno libero lo passerò anche con Arturo che mi accompagnerà a fare queste commissioni.
Nel mio giorno libero, a Lima, spero non mi derubino perché perderei 200 euro del progetto e forse mi toccherebbe ridarli … e non ne ho molti.
Il mio giorno libero inizierà alle nove e mezza.

Ecco sta per iniziare.

Esco di casa e mi aspetta Arturo con Jorge al volante, ci scarica davanti alla fermata del combi che in un’ora e mezza ci porterà a Lima.
Il caldo ci abbrutisce, non riesco a dire due parole senza sospirare ed asciugarmi la fronte.
Lui sembra tranquillo, mi cede volentieri l’ultimo posto libero sul bus e rimane in piedi tutto il viaggio.
Dal finestrino osservo le varie tappe del percorso che mi offrono panorami scioccanti: da Nana, fedele casa, si passa per Huaycan, dove dovrebbero scrivere “lasciate ogni speranza voi che entrate”, costeggiamo Vitarte, qui mi dice di chiudere il finestrino, i ladri si attaccano al mezzo e rubano dalle fessure aperte per il caldo soffocante; si scorrono zone ai margini di Lima, posti dove la povertà è padrona, dove le persone, accasciate sui marciapiedi aspettano solo che la manna già piovuta molto tempo fa, ricada su di loro per saziarli almeno un po’.
La visione sconcertante di uomini, donne e bambini seduti per la strada, nera, sporca, come i loro vestiti, le loro gambe, i loro visi, mi lascia a bocca aperta, mi chiedo come tornerà a casa quella gente, quando tornerà e soprattutto se tornerà in una casa o piuttosto non si addormenterà nello stesso punto che accoglie il loro corpo tutto il giorno.

Le compere procedono bene, torniamo a casa stanchi morti, ma rilassati.

martedì 4 marzo 2008

Le ultime parole famose: per oggi basta

Così credevo, ma dopo qualche ora, mi alzo dal mio lettino e mi avvio verso Puerto.
L’aria fredda, che sposta il calore regalato dal sole, mi accarezza la pelle ed il cuore. Non riesco a non ridere sola, per la strada.
I miei passi, quasi ballati, mi portano al negozio di fotografie, dove lascio il mio cd con le immagini da stampare della mia Milano lontana, amata, ma non rimpianta.
Incontro Gerardo, Arturo, e qualche altro caro amico dello scorso anno. Resto con loro a parlare, ad ascoltare e a vagare nella via principale della strana Nana.

Arturo mi riporta a casa e parliamo di “noi”: ero preoccupata che ce l’avesse con me per il fatto che io stessi insieme ad un ragazzo. Dice che un po’ di tristezza è venuta, ma anche passata e che è contento di continuare come amici.



Mi chiedo come io possa anche oggi non addormentarmi con il sorriso stampato sul mio viso!

lunedì 3 marzo 2008

Chi sa qualcosa a proposito delle microimprese?



Chissà perché oggi che avrei dovuto stare in formissima, mi sono ritrovata a svegliarmi alle 6.15 con il mal di stomaco più feroce che io abbia mai provato!
Proprio come l’altra volta, il mio fisico, il terzo giorno, fa cilecca!

Mauro mi consola un po’, Luciano mi abbandona per una settimana, Luis mi imbottisce di tisane e caffè, alla fine prendo il Buscopan.

Non posso però non andare alla Era, non posso lasciarmi già andare dal primo malessere che mi capita.
Prendo la borsa ed esco.
Il Giallo si fa attendere parecchio e, quando arriva, non ci sono posti e resto piegata in due con i capelli che svolazzavano in faccia ai passeggeri più comodi.
Finalmente mi siedo e una signora mi saluta, così anche un vecchietto de La Era.
E’ stupenda la sensazione di sentirsi di nuovo a casa, o per lo meno, di sentirsi sempre a casa, ovunque io sia, Italia o Perù.
Il segreto è vivere in un posto come se fosse per sempre: conoscere, affezionarti, arrivare ad amare come se mai ci fosse il giorno del Ritorno.
Arrivo al comedor dai miei bimbi , raccolgo alcune iscrizioni e vedo Anamelba, la madre che mi scriveva che aveva perso la casa e stava per strada.
L’accompagno a casa di sua madre e le parlo del progetto; lei mi mostra i maglioncini che sua madre e lei fanno ad uncinetto e rimango a bocca aperta dalla loro precisa bellezza.
Mi chiede di creare una microimpresa … dentro di me rido, fuori quasi piango: io? Ma non so nemmeno da che parte partire!!!

Torno al comedor, scatto alcune foto, torno a casa mezza morente.
Oggi la mia giornata finisce qui, non sto per nulla bene.

I momenti migliori

Alle sei, terminati i vari appuntamenti ed incontri, mi avvio verso Puerto, dove spero di incontrare Arturo.
Il mio caro amico mi aiuterà nel progetto, insegnando ai bambini alcuni lavoretti manuali.
Al negozio non c’è, menomale che Pelao ha un nuovissimo cellulare, probabilmente rubato, e lo chiama.
“Dice che sarà alla messa di alto Perù, passa da casa tua alle 21!”, sorride Pelao che spera sempre in una storia d’amore tra me e il belloccio peruviano.
“Pollo, portami alla chiesa di Alto Perù per favore!”, chiedo io.
Detto fatto mi ritrovo sul mototaxi a tutto gas.
Arrivo davanti alla chiesetta e, mentre Pollo mi parla di quanto io gli piaccia, di quanto crede che anche a me lui piaccia e mentre io gli confermo la mia previa posizione di amica e stop, arriva Arturo con in braccio Mateo, il suo bimbo biondo di due anni.
Una scena stupenda, un padre che porta in chiesa il suo bambino, qui è come fantascienza.
L’emozione si fa più grande ancora quando entro in chiesa e mi ritrovo seduta di fianco a lui ed il suo bambino tra le braccia, cantando e ballando.
Inizio a pensare che sono felice, stupendamente a mio agio, che forse il mio posto è qui, in questa terra di nulla.
Guardo il crocifisso con occhi interrogativi, mi riempie di calore nel cuore e mi strappa un risolino di complicità: so che in tutto ciò c’è la sua mano, che nulla è un caso.
Usciamo da messa, Arturo mi accompagna a casa e ci mettiamo d’accordo per martedì, perché mi accompagni a Lima a comprare le cose necessarie per i corsi di manualità.

Vado a letto pensando a Mauro, a come vorrei che fosse qui a condividere con me tutto questo, un continuo regalo di Dio.

Buonanotte.

L'orrenda malattia sociale

2 marzo 2007

Mentre faccio colazione, Abilio entra in cucina dicendo tra se e se “cosa posso dare da mangiare a questi due?”.
Non so perché ma ho sentito dentro di me che “quei due” era riferito a Yanfranco e Gladis, un bimbo di 9 anni e sua madre, entrambi malati di Aids.

Il terrore verso questa malattia mi impedisce di respirare, di restare calma.

“Io non vado a salutarli!”, dice un seminarista!
In quel momento, la rabbia mi sale, e gli rispondo seccata: “e questa sarebbe la tua vocazione?”.
“Cosa fai il prete con i sani e magari ricchi?”.
“Non sono mica scemo, perché devo andare ad ammalarmi!”, controbatte il ragazzo ancora lontano dal vestire il saio.

“Io credo che sia solo l’amore di Dio e verso i tuoi fratelli ceh ti spinga a non provare rigetto per queste persone, solo un’incommensurabile amore ti fa stare di fronte a questi dolorosi misteri della vita!”.
Il ragazzo mi osserva, mi dice che ho ragione, nasconde un po’ della vergogna che prova ad aver parlato così.
Vado sola, mi avvicino alla porta, li saluto da lontano e un mare di lacrime mi scende.
Non ci riesco, scappo dentro.

Prendo le matite colorate, un peluche, dei pennarelli e fogli da disegno, tutta carità delle persone a Milano e mi riavvio, questa volta con i seminaristi al mio seguito.

Gladis si alza, mi bacia, io tremo, ma il mio sorriso è più forte di qualsiasi titubanza, abbraccio il piccolo e gli regalo tutte quelle cose che avevo portato con me.

I ragazzi, giovane clero, non hanno che allungato la mano, non un bacio, non un abbraccio.

La madre inizia un discorso agghiacciante sulle conseguenze sociali di questa malattia. Le parole le escono fluide, interrotte solo lievemente da qualche lacrima consapevole.
La voce risulta ferma, decisa, ma addolorata, mai arresa però.
Quando arriva al racconto della sorella che porta i suoi cucchiai quando va a mangiare da lei, beh, io non reggo più la tristezza e mi copro la faccia e il pianto.
Non sono così forte, ma forse non c’è proprio da essere forti, c’è solo da sentire in te la sofferenza dell’altro.
Si, forse è solo questa la questione, essere capaci di vivere empaticamente con le persone che incontriamo, in quello riesco bene.

sabato 1 marzo 2008

I paesaggi ritrovati




L'inizio di tutto

29 febbraio 2008

Che data!
Ogni 4 anni, ed io lo sto vivendo in Perù.
Chissà cos’avevo fatto lo scorso 29 febbraio, sicuramente mi trovavo all’università a dare qualche esame, mi ero appena fidanzata con Edo, cercavo ancora di fuggire da Matt.

Quest’anno mi sono alzata alle 6.30 del mattino, ho chattato con Mauro, ho rivisto Mario Arena, assiduo collaboratore di Luciano e sono riuscita a convincerlo a fare il professore per il mio progetto.

Ci siamo dati appuntamento per le 17, intanto mi stavo preparando per raggiungere i miei ninos a La Era.

Alla una precisa arrivo li, il mio cuore pulsa da spaventarmi, respiro di nuovo quell’amata polvere che mi rendeva tanto sporca quanto felice.
Rimango sulla porta della mensa e sento le foci sommesse dei bimbi che pronunciano il mio nome, una splendida eco che si riversava tra i tavolini e colorava i loro volti, un attimo prima assorti nel loro pranzo caldo.

“Chi mi da un bacio?”, grido io con il mio solito spagnolo che desta in loro risa.
Alzano la mano, ma nessuno si alza: Mary impedisce qualsiasi movimento mentre si mangia e loro, rispettosi delle regole, sopprimono la loro voglia di corrermi incontro.

Passo da tutti e do una carezza, le ragazze sorridono, i maschietti si coprono la faccia con le mani.
Roy non c’è, nemmeno Gonzalo, manca anche Watson: che strano.
Mi avvicino a Mary, sperando in un’accoglienza calorosa, ma si limita a dirmi “bienvenida!”.
Ci rimango male, ma d’altronde si sente spodestata nuovamente del suo ruolo di padrona, quindi non può gioire molto.

“Mary, dov’è Watson?”, le chiedo preoccupata.
“L’hanno mandato alla selva, a lavorare, non andava bene a scuola! E’ partito proprio ieri!”
Mi siedo, le lacrime mi salgono quasi senza pensarci.
“Fossi arrivata qualche giorno fa, avrei parlato ai suoi genitori del progetto, lo avrei aiutato, avrebbe continuato la scuola!”, penso. Ecco la mia prima sconfitta.

“Se n’è andato via con la tua foto, dicendo che la porterà con se come un tesoro, dice che gli mancherai tanto!”, mi consola Willy, che è entrato a far parte dei bimbi della mensa.