mercoledì 30 aprile 2008

Come si ama?

Il tempo vola. Due mesi e due giorni.
Senza praticamente capire che le ore scorrono, mi ritrovo ad aver già speso un terzo della mia vita peruviana.
Il progetto prosegue con le sue gioie e i suoi dolori.
La mia solitudine quotidiana mi rafforza e mi da coraggio.
Qualche tempo fa non sarei riuscita a condurre una vita così, senza amici con i quali confidarti, senza molti punti saldi, senza momenti e possibilità di sfogo.
A volte sento il disperato bisogno che qualcuno mi ascolti, anche solo per sentire la mia felicità nel parlare del progetto.
A volte è come se mi abbattessi, ma non per troppo tempo.
La grande forza che non credevo di avere mi accompagna e cresce di giorno in giorno.
Saranno i miei bambini?
Non lo so, perché se fossero solo loro il motivo, dovrei ritrovarmi distrutta un giorno si e un giorno no.
I bimbi sono incostanti, come è incostante il loro amore immaturo.
Prendiamo Jeferson, il bimbo più amato.
Si sta comportando malissimo, non viene a fare i compiti se non lo prego in ginocchio, fa il bulletto con gli altri e va sempre accompagnato dai teppistelli della zona.
Cos’ho sbagliato?
Cosa si può sbagliare nel dare amore?
Poi mi sono ricordata i racconti di Enrico e Aida che parlavano della piccola Gianela. Anche lei dopo poco aveva iniziato a chiedere e pretendere, a disobbedire e allontanarsi.
Ma allora qual è la maniera giusta d’amare?
Esiste un libro che me lo spiega?

I loro genitori li allontanano, non li abbracciano, non danno loro amore. Hanno bisogno di affetto questi piccoli bambini. Questo è chiaro.
Ma fino a che punto posso spingermi?
Qual è la soglia tra l’amarli e viziarli?

Mi rendo conto di come sia enormemente difficile crescere dei bambini. Di come sia una costante prova di maturità, calma e ponderazione. Mi accorgo che forse io non sarò mai una precisa ed equilibrata combinazione di questi elementi.

venerdì 25 aprile 2008

No Smoking Life


I giorni da non-fumatrice passano lenti e ricchi di momenti vuoti, cosa tranquillissima per un comune e normalissimo fumatore, che proverebbe piacere nel potersi dedicare solo ed esclusivamente alla sua droga preferita.
Io no.
Sono sempre stata iperattiva, ora posso definirmi superiperattiva.
Non è questione di pura attività fisica, ma più che altro di concentramento, di attenzione.
Perché ho pensato che la sigaretta mi aiutasse a concentrarmi se ora che non fumo, in una settimana ho iniziato seriamente ad imparare a suonare la chitarra e a tessere con il macramè?
Se non ci vuole concentrazione in queste cose..in cosa ci vuole?
Insomma, le mie giornate sono state occupate dai bimbi, dalla musica e dall’artigianato.
Ho recuperato la voglia di spostarmi, di vedere, di conoscere.
Prima, chiunque fumerà lo potrà capire, il solo pensiero che si ha quando si entra a mangiare in un luogo pubblico è “quando si finisce che così mi fumo la ia sigaretta?”, quando si prende il treno o addirittura l’autobus “quanto manca alla nostra fermata?”.
Ora non è così, ma un pieno godere per ogni attività, per ogni esperienza che faccio, senza metterla in relazione al momento in cui la sigaretta sarà posizionata sulle mie labbra.
Assaporo ogni istante per quello che mi da in quel momento e non per un futuro, sperando che sia molto prossimo, nel quale mi accenderò la sigaretta.

Non sono più nervosa, se non più consapevole delle mie capacità e del mio potere, su me stessa e sulla mia vita.
In tutto questo la storia con Mauro è andata bene, molto bene, finché io non respiro ancora una volta quell’amara sensazione di “poca importanza” che io ho per lui.
Non so bene cosa pensare, a volte sento il suo amore, a volte penso che se io non ci fossi per lui poco cambierebbe.

Ieri sono stata a Lima, dal ragazzo che mi ha venduto la collana di macramè.
Sono stata con lui un’oretta mentre mi insegnava alcuni punti fondamentali per la creazione di una collana.
Penso: che bello se potessi essere libera così.
Creare e vendere ciò che la mia fantasia e la mia originalità dettano alle mie mani.
Chissà, magari quando torno mi iscrivo finalmente ad un corso per jewelery design.

lunedì 21 aprile 2008

Il ristorante dell'usato


Dopo lo zoo andiamo a mangiare in un “ristorante” per la strada. Ci servono tre piatti con patate alla Huancaina spaghetti con sugo e nei loro due piatti straripanti pasta, aggiungono anche un pezzo di pollo.
Il tutto da mangiare senza coltello. Chiedo tre bibite. La signora prende da sotto il tavolo tre bottiglie vuote, le etichette corrispondono alle tre bevande richieste. Il tutto mi allarma, ma Andres mi chiama “schizzinosa” e io lascio stare. La signora esce dal negozio con le tre bottiglie vuote e ritorna con tre piene. “Ma sono le stesse!”, dico io con orrore. Andres mi guarda e ride. “Signora, per cortesia, il tappo!” La signora mi porta i tre tappi. Li osservo, sono usurati e ossidati, il vetro della bottiglia è graffiato e vecchio. Bevo senza pensarci, ma la mente continua a dirmi che sto pagando per un bel contagio di tifo.
A casa i bambini giocano al computer e passano una buona oretta su skype con Mauro. Jeferson mi abbraccia e mi bacia, davanti alla web, come se dovesse far capire a Lui che ora è lui che mi ha vicino e non altri. Non vuole andarsene. “Gaia, voglio salutare ancora Mauro!”, mi dice quando li accompagno alla porta. Sorrido.

Lo Zoo

Nove.
Nessuno alla porta.
Inizio ad essere ansiosa, penso che non verranno.
Nove e mezza.
Bussano alla porta.
Sono i miei due angioletti.

“Vi piacerebbe andare allo zoo?”
“Si, dobbiamo andare la!”, dice Andres.
Jeferson più intimidito si limita a scuotere la testa annuendo.
Prendo con me 50 soles, l’equivalente di 12 euro, credo che mi avanzeranno anche.
La 41 arriva in fretta alla “Cruz”, l’incrocio. Ci sediamo tutti e tre vicini e mi iniziano a raccontare di quando giocano a calcio, del loro allenatore, del campionato.
“Guarda, Gaia! Li è il campo dove domani giochiamo. Vieni a vederci? Adesso sai dov’è il campo!”, dice Jeferson.
“Caspita, non credevo fosse così facile da raggiungere!”, dico io e aggiungo, “qualcuno di voi due sa quando scendere?”
“Certo, io lo so, non preoccuparti”, afferma Andres.
Ci vuole una mezzoretta, arriviamo a Huachipa. Più sporca di Nana, più abbandonata a se stessa, più grigia di smog.
Nello zoo i bambini iniziano a voler vedere il leone. Ovviamente il leone è l’ultimo animale, seguendo il percorso prestabilito.
Racconto storie sui vari animali che incontriamo e loro si appassionano anche ai bradipi.
In realtà io odio lo zoo e vedere gli animali prigionieri, ma la felicità dei due bambini al pensiero di vedere gli animali, ha avuto la meglio.
Il giro allo zoo è più divertente di quanto immaginassi, il vivere da mamma per un giorno è più bello ed impegnativo di quanto pensassi, e tutto ciò lo rifarei subito.

domenica 20 aprile 2008

Santa Pazienza!

Non ci si può addormentare, non ci si può permettere il riposo, bisogna invece vigilare, non lasciarsi scappare nulla, il minimo dettaglio potrebbe portare a conseguenza disastrose.
Segue la lotta con in mio Jeferson, dolce e sfrenatamente affettuoso a volte e maleducato e disperatamente lontano altre.
Il meccanismo della seduzione è scattato, e devo dire che ha avuto la meglio lui.
E’ vero, posso molto poco di fronte a lui, alla sua vocina che i chiama, al suo sguardo severo e penetrante quando non gli do ciò che vuole.

Oggi mi sono ripromessa di non stare così appiccicata a lui.
Mangio con Patty, la bimba più cicciotta del gruppo. Con lei è stata dura. È veramente molto viziata, non l’accezione occidentale del termine, ovviamente. Ma da qualche giorno è più rilassata, più cortese e mi ascolta e l’unica cosa che ho fatto di diverso dalle altre volte è semplicemente il fatto di aver smesso di riprenderla sempre, e di averle dato più affetto a parole e a gesti.

Dopo il pranzo andiamo a fare i compiti.
Mi metto alla porta prima di farli salire e guardo le mani di tutti, le odoro per vedere se si sono lavati con il sapone. Solo in quattro su 20 l’hanno fatto. Deisy, Jeferson, Abel e Heber. Di questi 4 mi sarei aspettata solamente Deisy.
Le piccole sorprese fanno bene al cuore.

Jeferson mi dice che ha molti compiti, alla fine scappa quando io mi volto.
Lo inseguo per la montagna e quando lo vedo gli urlo di venire da me.
Non mi ascolta, fa finta di non sentirmi, intorno a lui, i dieci teppistelli del Vallecito ridono della “figuraccia” che il loro amico sta facendo, torturando interiormente il piccolo evaso.

Una signora mi urla se sono i miei figli, mi chiedo se si sia trasferita qui durante la notte, per non sapere chi sono quei bambini e chi sono io: la Gringa.
“No, perché?” chiedo io incuriosita.
“Stanno rubando in casa mia!”
Sbianco. Non avevo pensato alla possibilità che Jeferson si tramutasse in un ladruncolo.

“Jeferson, vieni immediatamente qui!”
“Non vuole venire!”, dice Marcos, il più terribile di tutti, quello che nessuno dei bambini voleva al comedor, quello che ho difeso più volte prima di capire, che non solo prende in giro gli altri coetanei, ma anche me e tutti gli adulti del comedor.
I miei occhi parlano da soli, infatti il giovanotto tace.
Si voltano tutti e fanno per andarsene, allora mi rivolgo alla signora: “non si preoccupi, avverto io la madre di Jeferson, di Marcos, del fratello di Cinthia, di Juancito”.
Ad ogni nome che faccio, il bimbo chiamato in causa si volta verso di me, dicendo che lui non è stato, che lui non ha fatto nulla.
Magicamente tutti hanno ripreso possesso della parola e dell’udito.

Rido dentro di me, e lascio vaneggiare le piccole pesti, volto le spalle alla montagna e mi dirigo verso il comedor.

giovedì 17 aprile 2008

Zayuri e Christian

Una strana stanchezza ricopre con dolcezza le mie ossa, la voglia di dormire si impossessa della mia debole mente, del mio debole corpo.
Mi concedo 50 minuti di sonno, nemmeno un’ora piena: non posso.
Nel combi giallo guardo intensamente il “cobrador” (chi fa pagare il viaggio). Vede che i miei occhi si concentrano insistentemente su di lui. Mi osserva. Si nasconde dal mio sguardo. Vinco io. Provo a sorridergli, è uno di quei ragazzi giovani che in Italia sarebbero alla Cattolica o in Bicocca, mentre in Perù ha già le rughe e il suo futuro non arriva al “domani”.
Christian, il fratello di Zayuri, mi abbraccia in continuazione, e ricerca il mio affetto costantemente. Non lo conosco se non da un mesetto, da quando lui e la sorella hanno iniziato a partecipare al progetto.
Non conosco bene la sua situazione, ma si direbbe che la madre non gli dedichi molto tempo. Sono due fratellini veramente tranquilli, con un viso dolce, ma che porta negli occhi il grande peso della solitudine.
All’inizio ridevano poco, Zayuri non salutava quasi, si vergognava.
Adesso sono i più discreti, ma i più affettuosi.
Mentre li guardo mi commuovo, mi chiedo se io stia facendo del bene stando qui a fare sì che loro si sentano meglio e poi andarmene, abbandonandoli come se nulla fosse.

Jeferson fa i compiti, me li mostra orgoglioso, lo guardo e gli sorrido.
Lui so che mi ha stregata, non ho quasi più potere con lui. So che se fosse mio figlio finirebbe con il crescere un viziato, perché tutto ciò che fa mi strappa sorrisi e anche se si comporta male non riesco a stare con il muso molto a lungo.
Ho fatto in modo di non stare troppo con lui e, dopo una mezzoretta che stavo con gli altri, mi sono allontanata un momento verso l’uscita e lui mi ha raggiunto correndo e mi ha stretto forte forte, poi mi ha preso le braccia e mi ha fatto sedere per terra. Ha appoggiato la sua testa sulle mie gambe, come molto tempo fa.
Oggi abbiamo giocato a “Un. Due. Tre. Stella!”, Deysi e Jeferson sono i più agitati, come sempre.

Mangiamo, suoniamo la chitarra ed infine si passa una buona mezzora di risate con i più grandi. Meno male che le cadute spettacolari servono almeno a far ridere anche i meno socievoli, i più restii alla compagnia.

“Canta, Gaia!”, dice Carmen.
Inizio a dare spettacolo sostenuta dalla voce di Gustavo che si occupa della parte maschile, mentre io mi gestisco i coretti: Aventura, Obsesion!
Anche oggi torno a casa felice.

martedì 15 aprile 2008

Un gioco di forze.

Vedo che in biblioteca c’è ancora la signorina Nilda, mentre ai giochi ci sono tre bimbe e quattro bambini, uno di loro è Jeferson.
Con il cuore in gola decido di camminare verso di loro, mi convinco che sono bambini, che non hanno cattiveria nei loro modi di fare, che non possono volermi male, mi ripeto di dimostrarmi sicura perché qualora avvertissero la mia paura, la mia insicurezza, in quel preciso istante l’ "hermanita Gaia" diventerebbe una perdente.
Continuo a camminare, qualcuno urla il mio nome ed i quattro bambini scappano.
Mi fermo, non ho più voglia di salire, voglio andare a casa.
“Gaia, fregatene, vieni a giocare con noi!”, urla Deysi. Il risveglio della coscienza.
Sorrido, salgo quasi di corsa la salita breve ma scoscesa che separa il comedor dai giochi.
Arrivo nel momento in cui anche i quattro marmocchietti tornano dalla loro fuga.
Mi metto su una giostra con le tre fanciulle e urliamo e ci divertiamo.
Solo quando scendo dal gioco, Jefferson arriva.
Mi chiedo cosa stia succedendo. Si comporta come io mi sarei comportata con un mio ex-fidanzato che mi ha abbandonata per un’altra.
Vuole attirare l’attenzione, ma una volta che ce l’ha, rimane freddo e chiuso, quasi cattivo.
“Gaia, spingimi!”, è la sua voce.
Non lo accontento.
Vanno sullo scivolo e lo guardo, questa volta mi guarda e mi sorride.
Non capisco.
“Tutti sul girello!”, urlo io.
Pensavo che lui non sarebbe venuto, invece si mette vicino a me, ma io faccio finta di non vederlo.
Sta per cadere e io mi spavento, lui fa finta di nulla.
Un gioco di forze, zero fisicità, ma astuzia e fermezza, il più forte vince, ed il più forte non posso permettere che sia lui. Non per me, ma per lui, smetterei di essere un supporto, una confidente, una seconda madre, smetterebbe di contare su di me, di appoggiarsi a me quando piange.
Faccio foto, ma non a lui, quasi non esistesse. Temo che si arrabbi di più, ma devo correre questo rischio se voglio “vincere”.
Mando un bacio a Deysi, lei ride.
Mi alzo dal girello e mi allontano dicendo “tanto nessuno vuole i miei baci”.
“Io!”, urla la sua voce, e come quando un uomo, che tanto si ama, torna e ti riempie di gioia, così mi ha dato felicità la sua schiettezza, senza timore di un rifiuto.
Con calma mi giro, giochiamo ancora, il contatto fisico si ristabilisce piano piano.
Decido di fermarmi a cena, provo a parlargli prima di entrare al comedor, ma non c’è nulla da fare, per lui è stato tutto normale, un gioco.
Mi chiede di sedermi con lui a mangiare, tutto come al solito.
Mangio con Jordan e il mio piccolo Jeferson passa tutta la cena a voltarsi verso di me.
Poi arriva Juan ed inizia la lezione di teatro.
Rimango al comedor aspettando che Daniel e Roy finiscano di mangiare, do il regalo di compleanno a Daniel e inizio a giocare con il fratello maggiore di Jeferson.
Io lo rincorro lui scappa, il pavimento è troppo scivoloso ed io mi ritrovo in pochi minuti con il polso gonfio, l’anca escoriata, il ginocchio dolorante e la spalla graffiata.
Roy e Mary Cruz cercano di sollevarmi, ma io preferisco restare un po’ per terra. La testa mi gira, e so che il ginocchio colpito non mi reggerebbe.
Passa tutto tranne il polso, il dolore si estende anche al pollice, respiro, saluto, e vado a vedere la lezione di teatro.
Non appena Jeferson mi vede si nasconde la faccia tra le sue mani e poi mi chiama per nome, e mi manda un bacio volante.
Cosa voglio di più?
Lui qui.

Stavo per arrendermi.

I bambini sono sempre in ritardo, ma visto che lo sono anche i professori, ringrazio Dio per questa loro mancanza.
Mi improvviso una lezione sull’amicizia e sull’amore e dopo un quarto d’ora, sento da fuori Elar che urla, quasi allarmato: “c’è Gaia!”.
Io, stranita, esco e vedo Elar che corre a nascondersi dietro un muricciolo.
Capisco benissimo che il problema non è lui, ma qualcun altro, un altro bimbo, qualcuno come … Jeferson.
Seguo Elar, che esce allo scoperto e si infila correndo nella porticina che da sul corridoio scivoloso della struttura del comedor, noto Jeferson che con occhi incattiviti mi osserva rannicchiato.
Mi distrae Antonio, il professore di Educazione Civica che arriva con venti minuti di ritardo zoppicando. Io penso “ecco, zoppica! Non posso nemmeno sgridarlo per il ritardo!”.
Si scusa molto ed entra dai restanti disperati, mentre io mi avvicino a Jeferson.
Mi avvicino alle sue mani, alle sue gambine magrissime. Le mie mani si appoggiano sulle sue e subito un gesto stizzito mi fa capire che devo allontanarmi.
“Cos’hai, bimbo mio?”
I suoi occhi riflettono rancore, non capisco se stia per scoppiare in pianto oppure per darmi un sacco di pugni.
Si alza lentamente e si allontana.
Lo rincorro e lo afferro per lo zaino.
“Così non fai, bambino! Nessuno si permette di comportarsi così! Tu più ricevi amore, più sei maleducato?”
Mi guarda, si scrolla la mia presenza di dosso e inizia nuovamente a camminare verso la sua casa senza bagno, senza finestre, senza pavimento.
I miei occhi si riempiono di lacrime e tutto ciò che vorrei fare sarebbe fumarmi una sigaretta, ma resisto.
Vorrei scappare a casa, dire a Luciano che mi porti a Tingo Maria o da un’altra parte; il rifiuto del bimbo che amo di più è troppo forte, troppo doloroso.
La cosa peggiore poi è che non afferro assolutamente le motivazioni.

La coscienza di Gaia: L'ultima Sigaretta

Il libro ottiene due reazioni assolutamente opposte: la delusione perché mi aspettavo che i fossero delle tesi più convincenti, degli stimoli inediti; la sensazione profonda di voler smettere subito.
La sigaretta cosa ti da?
Appurato che non sia calmante, né aiuti la concentrazione, ma mi faccia solo spendere un mucchio di soldi e mi provochi probabilmente il cancro, credo la cosa migliore sia smettere con tutto questo.
Mi decido, mi accendo una sigaretta, non lo dico, non voglio ancora dirlo che è l’ultima.
E se non ci riesco?
Anche l'Amica ci ha provato innumerevoli volte e alla fine ci ricasca sempre.
E il fatto è che io lo so che ci ricasca, perché non la vedo convinta. Non vedo convinta nemmeno me.
Se per anni ho cercato di smettere e non ci sono mai riuscita, perché ora dovrei riuscirci?
Il libro mi dice di essere certa ed esserne felice.
Di non rimpiangere la cosa, di non sentirla come mancanza o come rinuncia, perché altrimenti passerò la mia vita a ricordarmi la sigaretta come un bene e non un male che mi distruggeva.
Allora, anche se dovessi essere così sicura, perché non voglio ancora dirlo alla gente?
Trattengo il fumo in bocca, lo mando giù e sento un orribile sapore, la sensazione del veleno di cui parla nel libro che intacca i miei polmoni.
Perché continuare?
Perché mi piace, mi dà sollievo sapere che c’è qualcosa che mi aspetta alla discesa dell’autobus, che attende con me quest’ultimo, che mi consola quando sono triste e mi fa compagnia mentre leggo e scrivo.
Ma chi non ha mai fumato, non ne sente il bisogno.
Quindi devo giungere a capire ed interiorizzare che sta proprio li la chiave del successo contro il fumo: non è necessario. E’ come indossare un paio di scarpe strette solo per provare piacere quando ce le togliamo, questo è simile al potere-guadagno della nicotina.

“Voglio fumare con te l’ultima sigaretta!”
Ci colleghiamo, ma lui mi distrae, la connessione è pessima, quindi devo abbandonare la sigaretta e scrivere in chat, non si vede bene la sua faccia, le parole arrivano sincopate.
“Mi arrendo. La devo fumare da sola.”, dico io.
In realtà non vorrei testimoni, in realtà vorrei che fosse solo un patto tra me e me.
Saluto Lui e guardo il mio pacchetto di Hamilton.
“Ok, Gaia. Ci siamo solo Io e Te! Questa è la tua ultima sigaretta!”
Tolgo l’ottava sigaretta dal pacchetto, saluto le altre sette, le abbandono sulla scrivania di P.Luis.
La guardo, vedo la carta bianca che racchiude l’erba infame con il suo veleno.
La fiamma dell’accendino illumina il mio volto per pochi secondi, giusto il tempo di accendere l’ultima sigaretta.
L’oggettino di plastica gialla trasparente finisce nel fondo dell’ultimo cassetto ed io inizio ad aspirare.
Con calma, come fosse un rituale sacro, avvicino ed allontano la sigaretta dalla bocca e con essa anche l’idea che essa rappresenta nella mia mente.
Allontano la necessità che ho di lei, ma la avvicino quando è troppo in là.
Mi convinco che posso farcela, noto il bruciore in gola che lascia il passaggio del fumo e immagino il catrame nei polmoni.
Sta per finire e con lei il nostro rapporto.
Mi viene un flash: tutta la mia vita senza di lei. Ce la farò?
Mi rattristo come quando so che non rivedrò mai più qualcuno, dopo averci passato del tempo, molto tempo.
O forse mi infastidisce l’idea dell’imposizione.
Mi da fastidio che qualcosa mi sia negato, a priori.
Un susseguirsi di domande e risposte, come una insana di mente, un vortice contorto di parole, immagini, ricordi e visioni future che si mescolano tra loro, girano formando un’aspirale continua dove riaffiora ora una cosa, ora l’altra. Poi tutto tace e scompaiono le immagini così come il mozzicone viene risucchiato dallo sciacquone, dentro alla tazza del water.

Easyway!

Ho quasi finito di disegnare la Madonna della visitazione, una giovane Maria con il pancione che racchiude in pochi centimetri cubici il mistero della sua maternità.
Di certo non posso ritenere perfetto il risultato, ma per essere un tentativo dopo anni, e forse il primo nell’ambito della figura umana, beh, mi ritengo soddisfatta.

Su skype c’è Edo che mi dice che vuole parlarmi.
“Gaia, l’altro giorno eravamo a Roh e siamo andati a un concerto e … eri molto più bella tu!”, dice ridendo.
I miei occhi si spengono, mi chiedo perché ancora una volta la mia tranquillità deve essere disturbata dai ricordi di quel periodo bello ed orribile allo stesso tempo.
“Edo! Ma perché mi parli di sti qui?”, rispondo io triste.
“Scusa, non pensavo ti turbasse! Poi volevo dirti che ho smesso di fumare!”, sorride.
“Ecco, questa si che è una notizia! Come hai fatto?”, chiedo io interessata
“Ho letto un libro, EasyWay! Voglio uccidere il piccolo mostro!”, dice ridendo.
“Edo, ti prego: mandamelo anche a me. E’ da tempo che vorrei smettere, ma non ci riesco!”
Mi passa il libro per mail e lo inizio a leggere.
Ogni riga che leggo è un pensiero che va a Lui, mi domando quanto sarebbe orgoglioso di me se riuscissi a smettere, o forse non darebbe troppa importanza alla cosa, visto che nel libro c’è scritto chiaramente che chi non fuma non può assolutamente capire le scelte del fumatore.
Sono decisa a smettere, ancora non so quando, ma presto lo farò.

Intanto la mia storia con Lui sembra toccare il fondo.
I troppi litigi stanno minando l’idea di un futuro insieme.
Mi manca averlo vicino, parlargli e farmi coccolare da Lui.
Ogni cosa che vivo amerei averlo di fianco, fare in modo che viva anche Lui sulla sua pelle le cose agghiaccianti e stupefacenti che il popolo peruviano è capace di regalare.

sabato 12 aprile 2008

Hola Luciano.

Mi verso il caffè nella tazza e corro in camera per parlare con Mauro.
La conversazione con lui sembra normale, finalmente mi sto calmando, non sono più così tanto agitata, finalmente da tre giorni non abbiamo avuto una discussione, benché minima.
Alle sette lui inizia a lavorare ed io esco un’altra volta dalla mia stanza, ma questa volta nel cortiletto, dopo tanto tempo, vedo Luciano.
I miei occhi si illuminano e gli corro incontro gettandogli le braccia al collo.
Qualche parola su come è andata la, su come è stato qua.
La prima colazione insieme dopo molto tempo, inizia a prendermi in giro per Arturo, dice che chiamerà Mauro per dirglielo.
Proprio non si fida, ma non capisco se di me o di Arturo.
È una cosa pazzesca come Luciano non si affidi alle mie parole, alle mie promesse, ma non importa.
So che mi vuole bene, quello è certo, forse è per quello che non mi vorrebbe sposata con un moto taxista.

Sul combi giallo il responsabile mi tratta veramente bene, dopo un po’ scopro che è lo zio di Frank e Orlando, due bimbi del comedor. Comprendo la sua premura e la sua gentilezza: molta gente si è accorta di quello che sta avvenendo li sopra, molta gente vorrebbe mandarmi i suoi figli, molta gente mi tratta come fossi una di loro, forse anche meglio.
Passo dalle suore, Lucia mi da le due chitarre che mi avevano promesso per i bambini.
Sono molto contenta e spero con tutto il cuore che i bambini vedano e capiscano che tutto ciò che hanno sono gesti d’amore e di condivisione.
Cammino con i due strumenti sulle spalle, i bambini da lontano mi vedono e come una mandria impazzita, si lasciano in una folle corse in discesa verso di me.
Tutti toccano le chitarre, mi fanno domande, li calmo con una storia sul pane alle pulci che Luciano avrebbe ipoteticamente portato dal brasile.
La quiete ritorna, le facce si schifano, ma si placano le urla.
Arriviamo al comedor e, anche oggi, Jeferson non c’è.
Non so più cosa fare, non lo capisco
“Anche con me fa così, adesso non mi parla nemmeno!”, mi dice Gustavo.
Parlo con Andres, il suo migliore amico, o almeno fino a poco tempo fa, e mi dice che è distaccato, che sta sempre in casa di Kalil, un ragazzino di quindici anni, che beve e fuma.
Ora, le parole del piccolo Andres, spaventato per le sorti del suo amichetto, vanno prese con le pinze, sicuramente questo kalil non è un ubriacone, ma altrettanto sicuramente l’avrà visto fumare e bere, almeno una volta.

giovedì 10 aprile 2008

Profesora Gaia.




Viva la Vita

Arrivo al comedor e tutti mi si gettano al collo e mi baciano, ma lui no. Jeferson infatti resta in un angolo e quando vado a riscuotere il mio bacio, beh, si allontana e con la faccia quasi schifata, si volta dall’altra parte.
Mangio con loro e non mi chiede di sedersi al tavolo con lui, mentre di solito si azzuffava con gli altri perché io mangiassi con lui.
Lo inseguo dopo il pranzo per chiedergli un bacio, me lo nega, poi, di malavoglia, accenna ad un abbraccio obbligato e se ne va promettendomi che sarebbe tornato.
Alle tre quasi tutti erano presente meno i più ritardatari, meno Jeferson.
Lascio la biblioteca e scendo in strada, cerco Romario e il libro misteriosamente scomparso.
Busso alla porta di Yanira e Jelsin.
Apre la madre, ci mettiamo a chiacchierare io, lei, Jelsin e la piccola Lucia.
A soli 2 anni credo che sia la persona che pronuncia meglio il mio nome.
Mi afferra qualcosa dalla borsa, la mia penna con le mucche d’artista.
Le dico di non metterla in bocca e dopo dieci secondi dalla sua promessa la penna è tra le sue labbra.
Lascio perdere la penna e chiedo del libro.
Jelsin non sa nulla, il discorso torna a Jeferson, lo vedono anche loro un po’ più scostante, più strano.
Intanto entro nella loro casa, un tuguri maleodorante.
La spazzatura si deve calciare per poter camminare sul pavimento di terra, noto qua e la bidoni di acqua, quella stessa che useranno per lavarsi, per cucinare e per lavare i vestiti.
Spero sempre che mi dicano: ci siamo appena trasferiti e questo è ciò che han lasciato i nostri predecessori, ma la risposta alla mia solita domanda “da quanto vivete qui?”, è sempre la stessa, ovvero “da poco, dodici anni!”.

Perchè ai più buoni.

Terminato con loro parlo un po’ con Renè, questo ragazzo mi sembra veramente bravo, mi aiuta con i ragazzini, a pazienza, è sempre puntuale.
Gli chiedo se ha bisogno di soldi, per iscriversi ad un corso che prepara al test di ingresso alla università.
Rifiuta cordialmente la mia offerta e mi dice di non abituarlo male, che loro, i peruviani, sono gente che si lascia viziare e poi per tutta la vita vogliono qualcuno che li accontenti nei loro capricci.
Lo saluto, rimandando l’interessante discussione al lunedì e rientro al comedor dove trovo Daniel, il fratello di Andres.
“Perché non sei venuto stamattina a fare i compiti?”, gli chiedo io.
“Mia madre è stata ancora male”, mi risponde con la bocca piena di pollo.
Lascio tutto e corro da sua madre, la trovo distesa su un letto che più che un letto è una tavola di legno con sopra delle lenzuola.
Non parla molto, mi fa cenno con la mano di sedermi di fianco a lei.
A malapena capisco il suo racconto, ma intendo quello che mi vuole dire.
Mi parla di quando domenica, al campo da calcio con Andres, si è sentita male, di come l’hanno portata all’ospedale e di come i dottori l’hanno trattata, assistendola male e di fretta, dimettendola quando ancora era in preda alle convulsioni.
La madre di Andres e Daniel soffre di una malformazione al cervello che le provoca delle alterazioni sensoriali e muscolari alla parte sinistra del corpo.
Le lacrime le affiorano dagli occhi, mi dice che ha paura che i suoi bambini rimangano soli, che lei muoia e loro rimangano senza madre, poi si ferma.
Con un filo di voce mi dice: “la mano, di nuovo le convulsioni!”.
Vedo le dita che si irrigidiscono, le prendo la mano tra le mie e la accarezzo. Dentro di me sento un profondo senso di impotenza, ma una grande forza, quella dell’amore.


Cosa posso dire io, venticinquenne viziata dall’occidente ad una madre consapevole di spegnersi attimo dopo attimo?
Cinque mesi fa Enrico mi aveva portato proprio in questa casa, a conoscere il suo caso, da allora lei è diventata una delle “tappe” che percorro settimanalmente. Cinque mesi fa, davanti ad Enrico, mi sono trovata a voler scappare, a voler fuggire da quell’odore, da quella donna, da quel dolore.
Oggi la cerco io, le voglio bene, l’odore mi è familiare e il dolore grande, ma sopportabile perché condiviso, sempre grande all’amore, che il Signore ci regala e ci insegna a regalare.


Piano piano il suo corpo si rilassa e la lascio riposare.
Piano piano il suo corpo si rilassa e la lascio riposare.

martedì 8 aprile 2008

Jeferson e Geyson

Con P. Luis mi allontano verso casa. Di fianco a noi ci sono i due fratellini muti, ma sorridenti.
Aprendo la porta di casa, i loro volti si dipingono di stupore e meraviglia, gli piace il cortile, si mettono a giocare mentre io mi faccio una doccia.
Ringrazio Dio per il dono che mi ha fatto, la possibilità di dare un sorriso è un’occasione speciale.

Mi faccio una doccia in fretta e mentre mi pettino sbircio dalla finestra: vedo Jeferson e Geyson che giocano nel cortile, sembrano felici.
Andiamo a Chaclacayo, ci sediamo al ristorante italiano, mi guardo, li guardo.
Io vestita bene, con i pantaloni neri appena comprati, una canottiera carina e i sandali più belli che avevo, loro con le magliettine bucate e sporchissime, i pantaloni ancora bagnati dalla piscina e macchiati di erba.
Padre Luis non si preoccupa, io spero che non mi facciano storie i capi del locale. Mi conoscono e mi trattano molto bene, ma non si sa mai.
Tutto fila liscio, P. Luis esagera ad ordinare e finisce che una pizza intera la lasciamo completamente, per i due bimbi prendiamo cannelloni e tortellini.
Jeferson assaggia i cannelloni e la sua faccina si dipinge di orrore.
“Cosa c’è tesoro?”, chiedo io ridendo.
A forza ingoia il boccone e non ne vuole sapere di mangiarne un altro. Il fratello si sforza e mangia un po’ di questo piatto, a quanto pare, orribile.
I ravioli per fortuna vengono divorati.
Certo che imparo poco alla volta!
Oggi la lezione numero mille: non dar da mangiare piatti all’italiana ai bambini peruviani!
Finiamo di mangiare, regaliamo la pizza ad un barbone per la strada, mentre i due fratellini vengono completamente rapiti da un ragazzo che propone giochi di prestigio.
Vende alcuni trucchi. P. Luis compra due giochetti e li regala a Jeferson e Geyson.
Poi prendiamo il combi e voliamo a Chosica.
Saliamo sul ponte, mangiamo un gelato, corriamo nel parco e li sfido a qualche gara di velocità, non sapendo che mi sarei poi ritrovata morta il giorno seguente.
Sull’autobus del ritorno, Jeferson mi prende la mano e mi accarezza, lo abbraccio forte e chiedo loro se vogliono venire a casa mia a guardare le foto della giornata.
Con un po’ di vergogna accettano.
Guardiamo le immagini di un giorno stupendo, poi vedo l’ora e li accompagno al combi giallo.

domenica 6 aprile 2008

5 aprile: Vallecito in piscina.


Alle otto, ora dell’appuntamento i bambini sono solo 3, mi demoralizzo e penso alla brutta figura che ci avrei fatto con Mario e con il gestore della piscina.
La madre di Patty mi dice che non hanno i soldi, le dico di non preoccuparsi che glieli avrei dati io, la madre di Andres non vuole mandarmi il bambino perché ha paura che anneghi, ma Mario mi ha detto che nessuno avrebbe fatto il bagno, perché non voleva assumersi la responsabilità.
Rassicuro altre madri che mi mandano i bambini senza costume.
Intanto sono le otto e mezza e i miei bimbi sono 21!
Decido di scendere verso la piscina, seguiamo al contrario la rotta che il combi giallo fa, sperando di incontrarne uno che trasporti Mario.
Finalmente, quasi a metà strada, sento il fischietto di quell’uomo ritardatario, tiro un sospiro di sollievo e mi volto.
Con la faccia tranquilla scende verso di noi.
“Mario!”, esclamo io, “non potevi avvisarmi?! Ero preoccupata, guarda quanti sono!”.
Ride: “ma secondo te ti abbandono?”.
“Non lo so, fatto sta che dovevi essere qui un’ora e mezza fa e arrivi adesso!”, gli rispondo semi-scocciata.
Cerco di ridurre al minimo i miei nervi e la cosa funziona finché lui urla: “pronti per tuffarsi in piscina?”.
Io svengo!
Guardo Patty, Niels, Andres, Erikson: i bimbi che non avevano portato il costume, obbedendo al primo avviso dato al comedor, ovvero che non avremmo fatto il bagno, ma solo giocato tutti insieme nel campo!
“Mario! Ma tu avevi detto che non avrebbero fatto il bagno e in questo modo punisci quelli che hanno rispettato le regole e premi chi, disobbedendo, si è infilato lo stesso il costume!”, gli faccio notare.


Arriviamo al club 7 de Agosto, mi affido alle parole di Mario “ho preparato diversi giochi da fare!”.
Ci sediamo e gli fa fare due giochini, “il treno di parole” e uno con le tabelline. Sono sconvolta: bisognava andare in piscina per fargli fare questi giochi?
Si stanno annoiando, così li porto nel campo.
Un gruppo gioca a calcio, l’altro a pallavolo con me.
Un po’ alla volta noto che i bambini vanno, senza chiedere il permesso, a comprarsi il gelato, le patatine e bibite di ogni genere.
Rimango scioccata dal loro comportamento e li sgrido, dicendo che avremmo mangiato tutti insieme dopo!


Arriva P. Luis e racconta loro una storia, distribuisce panini e succhi di frutta e io mi porto a nuotare quei bambini disobbedienti, ormai incitati a buttarsi in piscina, dal professor Mario.

Geyson, il fratello di Jeferson non mi lascia un secondo.
Si arrampica sulle mie spalle ustionate e mi usa come trampolino. Lo seguono altri, soprattutto Jeferson che si avvinghia a me abbracciandomi in continuazione, come se fossi solo sua.
La cosa che più mi sconvolge è il fatto che, fino a due settimane fa, suo fratello non mi rivolgeva quasi la parola, non si era mai avvicinato, mai un sorriso!


Momenti...

Io e Kevin


Any con il rosario


Erikson e Abel

La mia impotenza verso il loro dolore.


“Yeferson! Vai a casa , prendi i tuoi quaderni e facciamo i compiti! Sennò tua madre mi sgrida!”, dico ad alta voce, cercando di farmi sentire tra tutte quelle grida di bambini scatenati.
Guardo Yeferson e noto che si sta cercando di nascondere, si sta coprendo la sua faccia con lo zaino.
Mi avvicino, credendo stesse giocando, li tolgo lo zaino. Mi ritrovo davanti una faccia in lacrime.
Il bambino cerca di andarsene di sopra con gli altri, ma io lo fermo giusto in tempo, avrebbe provocato un tale disordine su di sopra che a stento sarei riuscita a tenerli buoni per 3 ore.
Ci mancava il fatto che oggi fossi SOLA!
Il bimbo continua a piangere, con la faccia coperta dalla sua felpina arancione.
Cerco le sue mani e sento la rigidità del suo corpo, i muscoli sono contratti, è in uno stato di chiusura totale.
Così non riuscirei nemmeno a prenderlo in braccio.
Vado in bagno e prendo un po’ di carta igienica; inizio ad asciugargli gli occhi pensando che si sarebbe ritratto, invece no. Rivolge i suoi occhi a me, cercando il mio sguardo, io gli sorrido, ma sono scossa mentre guardo i suoi occhi pieni di lacrime, ferme sui bordi delle palpebre, come se fossero finte.
Provo di nuovo a chiedergli se sia colpa mia tutto questo, ma non mi risponde, non muove nemmeno la testa per annuire. Rimango li in silenzio, non capisco come, dove io trovi la pazienza che sto dimostrando.
Jeferson è un bimbo che mi ha subito colpito, fin dall’inizio, per le maniere educate, per i modi di fare assolutamente posati, per il sorriso che ammalia, per quegli occhi dentro ai quali leggi una storia tristissima e un tentativo di lotta. Vederlo senza forze, triste, e forse a causa mia, beh, è una sensazione bruttissima. Come di una mamma che deve sgridare il suo bimbo anche se gli vuole bene, e gliene vuole tanto.

“Gustavo, aiutami!”, supplico il figlio di Mari Cruz, è una buonissima persona e ci sa molto fare con i bambini. Ha la “fortuna” di vivere come loro la povertà e quindi di capirli molto meglio di quanto possa fare io.

Gustavo si rialza, mi guarda: “sua madre non c’è e lui non può venire in piscina perché non ha soldi”.
Il mio cuore si fa piccolo piccolo, senza sapere bene perché; mi avvicino al mio bimbo, lo guardo, mi siedo su un muretto vicino e lo chiamo. Si volta e, osservandomi, si avvicina a me, si siede in braccio e scoppia a piangere un’altra volta, questa volta però, le sue braccine si stringono forte a me, la sua testa contro la mia gola, le sue mani si attaccano alla mia maglietta.
“Calmati, Jeferson, non preoccuparti. Lo so che la tua mamma lavora e non la vedi se non il sabato alla sera. Non preoccuparti hijo!”, quel bimbo ha su di me un potere immenso, il bene che gli voglio è palpabile.
“Mi manca la mia mamma!”
A questo punto non so che fare. L’unica cosa è dirgli che la vedrà presto e stingerlo più forte di prima.

Andiamo in biblioteca dagli altri e sto con loro fino alle sei e mezza, mangio con loro e resto per la lezione di musica, tutto questo con una grande sensazione di impotenza verso le loro esigenze, verso le loro paure.

venerdì 4 aprile 2008

Tanti auguri Roy!



Oggi è il compleanno di Roy, i miei mandano un cartolina virtuale che gli farò leggere non appena verrà a trovarmi qui a casa.
Questa mattina, dopo la discussione con Mauro, prendo la borsa ed esco, aspetto il combi giallo, non vedendo l’ora di dare a Roy i tre regalini che io e padre Luis abbiamo comprato.
Sul combi mi accorgo di non avere soldi per pagare il viaggio. Mi vergogno come una ladra, ma per fortuna i conducenti mi conoscono bene, sanno che almeno 4 volte al giorno il mio destino mi f
Percorrere la stessa strada quindi non ci vorrà molto perché io ridia i soldi che dovrei pagare oggi.
Al comedor, puntualissimi Geyson e Ronaldo e l’Hermano Daniel che mi aiuta a dare ripetizioni.
Quando arriva Roy gli corro in contro e lo abbraccio, lui ride.
Compie tredici anni, non riceverà regali se non il mio.
Mi ringrazia tantissimo e si mette a fare i compiti: tre miracoli che Gesù ha fatto.
Forse vorrebbe che in quei tre ci fosse anche quello di riavere suo padre, di avere una casa decente ed un bagno, o più ancora, di avere un futuro più roseo di quello che sa bene avrà.

Se tornerai...



Ieri stavo parlando con Mauro su Skype quando ricevo una telefonata.
Una vocina insicura mi parla dall’altra parte del telefono e io non riesco a capire chi sia.
“Segnorita Gaia?”, sussurra.
“Si, sono io!”, rispondo incerta.
“Buon giorno, scusami se ti disturbo, è che qui è tutto diverso, voglio tornare li!”
“Watzon!”, grido io meravigliata.
“Si, sono io. Mia madre mi ha mandato qui a lavorare, ma io non ce la faccio più. Puoi aiutarmi a studiare se torno?”, mi supplica.
Come al solito il mio cuoricino si fa più grande e assicuro al mio ragazzino che farò di tutto.
La comunicazione cade e io non ho il suo numero per richiamarlo.
Sono contenta che mi abbia chiamata, ero arrivata qui e avevo scoperto che era stato spedito alla selva come pacco postale dalla madre stufa del suo disimpegno, ora, a distanza di un mese, ho la possibilità, attraverso il progetto, di fargli riprendere gli studi.
Così mi precipito al collegio dei frati di San Grabriel, il più vicino a casa sua.
La porta è aperta, una marea di bambini giocano in cortile: è l’ora della ricreazione.
Una signora si avvicina e mi saluta cordialmente, non so chi sia.
Mi chiama per nome, allora le chiedo di chi sia madre, supponendo che mi conosca per il comedor.
Tutto fila liscio, è la madre di Medali, detta Techi, e di Niels, uno dei ragazzi che da lezioni di chitarra ai miei piccoli.
Lavora al collegio come cuoca, mi infilo anche io in cucina ed osservo le dinamiche per la preparazione di 1000 merende.
Tutto è cucinato, non vengono distribuite merendine già confezionate, ma budini fatti in casa e pezzi di anguria.
Penso ai baracchini in Italia dove l’anguria di costa un occhio della testa, ma quella fetta è perfetta, rossa, bianca e verde ed i tre colori si avvicendano con un rapporto prestabilito dalla nostra cultura.
Qui il verde ed il bianco sembrano avere la meglio sulla poca polpa rossa, nei piccoli segmenti del frutto, preparati per i bambini.

Esco dalla cucina e noto molti occhi che mi guardano diffidenti e meravigliati.
Che ci fa una gringa al collegio? Si domanderanno di certo. Il loro interesse si tinge di curiosità ancora più intensa quando mi avvicino ad alcuni “fortunati”, salutandoli con un bacio o una carezza.
Quello che qui non può mancare è la dimensione affettiva del linguaggio non verbale. On posso pensare di salutare uno con un bacio e l’altro solo con un “ciao”. Il conflitto interiore che si creerebbe nella mente e nel cuore di quest’ultimo sarebbe tremendo.
Così, ogni volta che arrivo al comedor, accarezzo la testa di tutti, do un pizzicotto leggero sulla pancia dei maschietti, chiudo gli occhi con le mie mani alle più timide del gruppo, bacio chi si fionda ad abbracciarmi.
La minaccia dei pidocchi è sempre presente, ma non do più peso alla paura, mi guida il cuore, ed il cuore ha solo paura dell’indifferenza, della sofferenza, della chiusura. Il cuore non ha paura di amare e l’amore scaccia ogni altra insidia.

martedì 1 aprile 2008

Un pomeriggio stupendo!




Sul combi incontro i due professori, in ritardo!
Scendiamo dal combi e cammino a fianco dei due omini bassi, ma esageratamente robusti, e sento le voci dei bimbi che gridano il mio nome!
“Come farà a non mancarmi tutto questo?”, dico io, strappando una risata ai due.
I bambini sono circa 25, si lavora discretamente.
Osservo i due professori: Mario sicuro di se, si siede ai vari tavolini e si comporta da padrone; Tonio, più restio ad impossessarsi del suo ruolo, devo infatti intervenire io per far si che i bambini ascoltino.
La cosa che mi lascia di stucco è proprio l’autorità quasi totale che ho su di loro quasi senza diritto.
Insomma, sono solo spuntata li per caso, senza che nessuno me lo chiedesse, eppure sono la loro mamma, un grande punto di riferimento, mi ascoltano e si affidano a me quasi incondizionatamente, il tutto è piacevole, ma anche molto impegnativo.
Ripenso ai primi tempi con loro, quando alcuni mi salutavano, altri per timidezza o menefreghismo, facevano finta di non conoscermi.
Guardo al presente e vedo la trentina di bambini che non si staccano da me, che non se ne vanno prima di avermi dato mille baci, che fanno a gara a chi mi abbraccia di più.
Terminano le lezioni ed i bambini stanno scendendo dalla biblioteca per andare a casa; in quel momento vedo padre Luis che entra nel salone e sento Andres che urla “hermano”!
“Bambini vi presento il padre Luis!”, grido io.
Tutti si avventano sul nuovo personaggio e gli porgono la mano.
Lui fa il solito gioco di stringerla esageratamente e loro si divertono a lasciarsi stritolare le piccole dita sporche.
A tutti da una caramella e un rosario.
Li conquista in pochissimi istanti, ed io penso: che bello che sarebbe se anche Luciano venisse ogni tanto qui, che successo avrebbe con queste piccole grandi anime.

Nella bisca

Esco a passeggiare e incontro proprio lui, Arturo. Mi avrà seguita?
Mi dice che sta con un amico arrivato oggi da un viaggio di alcuni mesi.
Mi invitano a bere con loro ed io accetto, anche se sono solo le quattro del pomeriggio!!
Arturo mi viene a prendere a casa e mi sembra più strano del solito.
Mi accompagna in una vietta secondaria, dove non siamo mai andati, tutte case e niente bar.
“Ok, qui dentro!”, mi indica una porta di un negozietto dove vendono di tutto e mi inizio a preoccupare.
“Ma io pensavo fosse un pub!”, rispondo sconcertata.
“Non preoccuparti”
Bussa tre volte e un ragazzo apre la porta chiusa a chiave; mi guarda, poi rivolge il suo sguardo interrogativo verso Arturo, che lo rassicura dicendo che sono una sua amica.
Entro nel negozio che ha tutta l’impressione di essere chiuso.
Arturo mi spinge verso una porta che dà sul retro, mi ci infilo e mi ritrovo in un film di mafia e bische clandestine.
Per fortuna il padrone del posto non è un malavitoso, ma un simpatico gay che ci prova con Arturo, il quale usa la mia persona come scudo.
Ci sediamo ad un tavolino sotto una tettoia fatta di assi e edera intrecciata, qualche grappolo di uva ormai secco, pende dal suo sostegno. Sulle pareti intonacate alla buona, si trovano poster delle birre più famose in Perù.
Gli uomini seduti ad un tavolo vicino a noi giocano a carte ed urlano ad ogni goal segnato dalla squadra seguita.
L’amico di Arturo, Ernesto, inizia uno sproloquio sulla sua vita difficile, ma ora ricca e soddisfacente; ci enumera le mille volte che ha aiutato i bambini, i suoi viaggi in Africa; l’ammontare delle ore dormite in una settimana: tutte storie inventate dalla sua mente atta a vantarsi di fronte ad un’europea e ad un amico sicuramente più povero.
Beviamo quasi otto bottiglie di birra e ci spostiamo ad un ristorantino dove mettono dischi italiani, anni 70.
Un’atmosfera lontana da quella che respiro con i miei bambini a La Era, ma ugualmente piacevole, mi sono sentita un po’ a casa mia.