martedì 15 aprile 2008

Stavo per arrendermi.

I bambini sono sempre in ritardo, ma visto che lo sono anche i professori, ringrazio Dio per questa loro mancanza.
Mi improvviso una lezione sull’amicizia e sull’amore e dopo un quarto d’ora, sento da fuori Elar che urla, quasi allarmato: “c’è Gaia!”.
Io, stranita, esco e vedo Elar che corre a nascondersi dietro un muricciolo.
Capisco benissimo che il problema non è lui, ma qualcun altro, un altro bimbo, qualcuno come … Jeferson.
Seguo Elar, che esce allo scoperto e si infila correndo nella porticina che da sul corridoio scivoloso della struttura del comedor, noto Jeferson che con occhi incattiviti mi osserva rannicchiato.
Mi distrae Antonio, il professore di Educazione Civica che arriva con venti minuti di ritardo zoppicando. Io penso “ecco, zoppica! Non posso nemmeno sgridarlo per il ritardo!”.
Si scusa molto ed entra dai restanti disperati, mentre io mi avvicino a Jeferson.
Mi avvicino alle sue mani, alle sue gambine magrissime. Le mie mani si appoggiano sulle sue e subito un gesto stizzito mi fa capire che devo allontanarmi.
“Cos’hai, bimbo mio?”
I suoi occhi riflettono rancore, non capisco se stia per scoppiare in pianto oppure per darmi un sacco di pugni.
Si alza lentamente e si allontana.
Lo rincorro e lo afferro per lo zaino.
“Così non fai, bambino! Nessuno si permette di comportarsi così! Tu più ricevi amore, più sei maleducato?”
Mi guarda, si scrolla la mia presenza di dosso e inizia nuovamente a camminare verso la sua casa senza bagno, senza finestre, senza pavimento.
I miei occhi si riempiono di lacrime e tutto ciò che vorrei fare sarebbe fumarmi una sigaretta, ma resisto.
Vorrei scappare a casa, dire a Luciano che mi porti a Tingo Maria o da un’altra parte; il rifiuto del bimbo che amo di più è troppo forte, troppo doloroso.
La cosa peggiore poi è che non afferro assolutamente le motivazioni.

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