giovedì 20 dicembre 2007

HELP




Scelgo una meta, parlo con qualcuno e in lontananza sembra che si possa intravedere la possibilità di costituire un progetto per togliere i bambini dalla strada.

Non è come si pensa: la strada non è cattiva.

Io posso stare in strada senza che diventi per forza una drogata.

La cosa che li spinge verso vie sbagliate è la noia, il NULLA da fare.


Per questo ho pensato di organizzare laboratori, dove i bambini possano imparare a suonare uno strumento, a fare teatro, a cantare.

Allo stesso tempo ci sarebbero dei professori di matematica e lingua che darebbero le famose ripetizioni.


tutto questo è ciò che avevo dentro da tempo, e solo gli ultimi giorni sembra possibile da realizzare.


AIUTATEMI!


In piscina con tutti




Una giornata di saluti nel divertimento.

Così i ragazzini di moron hanno deciso che doveva essere la nostra "ultima volta".

In piscina, sotto al sole, giocando e ridendo.


Una giornata di sorrisi, come la maggior parte delle giornate qui.

Il tempo è passato veloce, senza comprendere tutto, senza sapere cosa veramente stava succedendo.

Piano piano sento che non vorrei andarmene, vorrei stare qui, in "casa mia", tra loro, i ragazzini che non hanno molto, ma ti danno tutto ciò che hanno.


In un attimo tutto è volato, ma l'amore per loro è grande come se fosse da anni che li conosco.


mercoledì 12 dicembre 2007

Alle sei e mezza, stavo scendendo verso casa e mi ritrovo a guardare il bigliettaio del Giallo.
Un bambino.
Mi sono fatta coraggio e mi sono presentata, così ho iniziato a fargli delle domande.

“Como te llamas?”, ho chiesto.
“Yordan”
“Cuantos anos tienes?”
“Dodici!”, mi risponde timidamente, allo stesso tempo fiero di fare quello che stava facendo.
“E perché lavori a dodici anni?”, dico dolcemente.
“E’ finita la scuola e un signore mi ha chiesto se volevo lavorare”.
“Quanto guadagni al giorno?”
“Quindici soles, per lavorare dalle sei della mattina fino a mezzanotte”.
Quasi svengo, ma non lo do a vedere. Quindici soles corrispondono a 3.50 euro.

Solitamente il lavoro dei bigliettai è lasciato a giovani o a uomini con un vocione potente, devono gridare “baja” e “sube”, ogni volta che la gente sale e scende, per avvisare il conducente di fermarsi quando c’è gente che sale ed impedirgli che riprenda la marcia mentre qualcuno scende.
Solitamente la loro voce si sente, è quasi fastidiosa.
La voce di Jordan era simile ad uno squittire di topolino, le parole uscivano titubanti, insicure.

Lo saluto, scendo, penso: in Italia non sarebbe mai successo.
“Ancora con questa Italia!”

martedì 11 dicembre 2007

Prenderla con filosofia ... o umiltà e lotta?


"A vida me fez um papelao e eu fiz do papelao a minha vida"

"La vita mi ha fatto un cartone, io faccio del cartone la mia vita"

Il grido di presa di coscienza di molti poveri che vivono per la strada, che lavorano per la strada, che dormono per la strada.
Raccolgono la carta e i cartoni per la strada e li vendono al deposito.
La vita gli ha fatto uno scherzo, loro fanno di questo scherzo la loro vita!

La mia vita

Yeffernos Patty, Michel, Carmen, Deysi, Sami e Gaia
Gustavo

Per ricordare il Brasile

In chiesa


Con i padri


Per la strada

Piccoli incidenti...

Sono stati giorni alquanto movimentati, mancano solo due settimane ai saluti definitivi e nella mia testa si affollano mille preoccupazioni, mille pensieri, mille cose future da organizzare.
Voglio tornare qui, voglio che ciò che ho iniziato abbia un inizio più concreto, che sia la fine del mio inizio e l’inizio di qualcosa di qualcosa senza fine.
Un’impostazione per Moron Chico, un rapporto con La Era.
Due realtà diverse, ma che amo con la stessa forza.

Oggi sono stata come ogni lunedì a La Era; ho giocato a calcio per due ore sotto il sole e, solo quando ho sentito che le mie forze stavano lentamente allontanandosi da me, ho deciso di proporre un simpatico nascondino all’interno della casa.
Ho temuto il peggio, ho veramente creduto che qualcosa sarebbe successo, come venerdì scorso quando mentre parlavo con il fratello ventenne i Gonzalo, Watson è corso a chiamarmi e quando sono arrivata sul posto mi sono trovata Freddy in un bagno di sangue a causa di una pietra lanciata da un altro ragazzino.

Invece non è accaduto nulla, solo qualche scivolata sul cemento, ma abbiamo limitato le tragedie a qualche graffietto, ma d'altronde i bambini sono così!

Non tutto.


L’orecchio mi fa ancora male.
Il cuore un pochino.
Vado alla Sabiduria per la solita lezione di italiano e le ragazzine non si presentano.
“Maria, perdonami, ma io non vengo più. Di a tutte loro che si sono comportate molto male e il tempo di una persona è da prendere sul serio”.
La madre mi guarda e annuisce; si scusa per le alunne, ma ha altro per la testa.
“Abbiamo qui un papà che non vuole accettare che sua figlia sia incinta. Non vuole che tenga il bambino!”.
Le prometto che pregherò per lei, mi allontano e torno a casa.

E’ tardi, ho veramente perso un sacco di tempo oggi!
Prendo il mototaxi, me la cavo con un sol fino a Moron Chico.
Quando arrivo la non c’è nessuno.
Sembra sia passata una banda di terroristi ed abbiano fato fuori ogni sorta di vita umana.
Aspetto tranquilla, passeggiando per le viuzze sporche ed abbandonate.
“Hermanita!”, una voce!
Mi giro, vedo le “signorine del muretto”, ormai le chiamo così.
Tre vecchiette sedute perennemente sopra dei sassi all’angolo del primo isolato di Moron.

Mi soffermo con loro, le guardo e riconosco che mi sono mancate.
Poi da lontano arrivano Diego e John, Adolfo e Josselin.
Mi congedo gentilmente dalle signorine, sposate con figli, e vado a giocare a calcio con i ragazzini.

venerdì 7 dicembre 2007

Chi Ama, Ama



"E' assurdo", dice la ragione

"E' quel che è" dice l'amore

"E' infelicità" dice il calcolo

"Non è altro che dolore" dice la paura

"E' vano" dice il giudizio

"E' quel che è" dice l'amore

"E' ridicolo" dice l'orgoglio

"E' avventato" dice la prudenza

"E' impossibile" dice l'esperienza

"E' quel che è" dice l'amore.


(Chi ama, ama di Erich Fried)

giovedì 6 dicembre 2007

Un posto per ciascuno



Visito la loro cappellina, mi soffermo su due particolari estremamente pittoreschi e significativi.
La croce appesa al muro ha i chiodi, con i quali appesero Gesù, ma Cristo manca.
Non c’è il suo corpo.
La guardo, la osservo.
Mentre penso al suo significato, giunge un’illuminazione: è libera dal corpo di Dio per lasciare spazio al mio, a quello di chiunque guarda la croce, di chiunque prega davanti a Lei, di chiunque desidera “prendere la propria croce e seguirlo”.
Ed io?
Sono pronta?
Umilmente abbasso lo sguardo, sono troppe le paure che mi frenano, le paure di perdermi dei beni materiali e terreni.

Volgo il mio sguardo alle sedie, rimango a bocca aperta: sono tutte bianche tranne una di legno scuro, al centro della stanza, circondata dalle altre.
Su quella sedia c’è scritto “Gesù”.
Che sensazione di pace, di presenza divina!

mercoledì 5 dicembre 2007

Un segno



La strada è senza sentiero, scivoliamo più volte, ma ci diamo una mano a vicenda.
Io cado, metto le mani nella terra per tirarmi su, cado riempiendomi di polvere, ma rido, rido, rido.
Mentre giungiamo alla croce Carmen e Deisy mi danno la mano, camminiamo insieme, arriviamo insieme.
Arriviamo alla croce, facciamo una preghiera per Lino. Preghiamo tutti, un fantastico gruppetto ecumenico.
Dalla cima della montagna urliamo “ciao Italia”, allora la gente ci guarda, qualcuno sorride, altri non capiscono ne cosa abbiamo detto, ne perché siamo tanto contenti.

Torniamo davanti al comedor e impartisco un’interessante lezione di condivisione, chissà mai che la mettano in pratica qualche volta.

L’infermiera Carmen mi chiede di tradurle la lettera dell’italiana dalla quale andrà a vivere. Si occuperà della madre malata.
Leggendola sorrido, perché parla di me come di “quella suora che sta con voi”; mi commuovo perché esprime serenità anche nella sofferenza; mi rallegro perché devo aver fatto un buon lavoro, sto lasciando un segno.

Che sia un segno di speranza, di amore, di gioia.
Che sia un segno non con scritto Gaia, ma con scritto Noi.
Che sia un segno indelebile non nella strada, nella terra, nella roccia, ma nel cuore.
Che sia un segno che sia loro, ma sia mio.
Che sia un segno da leggere, da sentire e da vivere.
Che sia sempre un segno e non la loro vita, solo un segno, ma un segno d’amore.

A Manu, Vale, Popi e Giovi

Finalmente a casa, finalmente nel mio Perù.
Mi alzo con la gioia nel cuore, nel corpo, nella voce e, non fosse per il dolore all’orecchio che mi ha tormentato tutta la notte, penserei che è uno dei giorni più belli della mia vita peruviana.
Il perché è semplice.
Ogni volta che si perde qualcosa, si capisce quanto era importante, ed in Brasile io non avevo il mio Perù, e ne ho sentito la necessità.
Entro in internet, leggo le varie mail di amici e conoscenti e trovo mia madre su msn.
“Sai del nonno Lino?”.
“Si, sta male, vero?”
“Ieri siamo stati al funerale!”.
Lentamente realizzo quello che leggo, lentamente il mio viso si fa rosso, lentamente.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime, anche se non era mio nonno era comunque una parsona cara.
Una persona che emanava serenità, sempre con il sorriso sulle labbra, con il sorriso negli occhi, un sorriso luminoso.
Lui, gli alpini, il coro.
Ma tutto passa, il male ed il bene, allora anche le persone, così anche lui è passato.
La differenza tra chi crede e chi non crede è la visione del passare. Passare dalla vita o passare alla vita.
Ma sempre quando se ne va qualcuno si pensa a chi rimane e così penso a nonna Francesca, a Manu, a Vale, Giovi e Popi.
Penso a chi viveva con lui, a chi lo vedeva sorridere sempre e che ora non lo vedrà sorridere, ma lo sentirà sorridere sempre per le gioie e i traguardi che nella vita loro passeranno.
La croce ci dice: non esiste disastro, senza speranza, non esiste oscurità senza stella, nessuna tempesta senza un porto a cui ancorarsi (Giovanni Paolo II).

Lascio la casa dopo il pranzo, con il pianto in gola, non tanto per la morte, ma per il mancato ascolto da parte di Luciano, al quale mi sono avvicinata un paio di volte per dirgli l’accaduto, senza destare in lui il minimo interessamento.

Sliding door contra vita

Purtroppo, non ho avuto l’opportunità di vivere “Sliding doors”, mi sono dovuta accontentare di una possibilità, di una via, di una scelta. Ed ovviamente ho scelto quella meno appropriata.
Adesso mi dico:se se se.

Allora faccio un passo indietro ed inizio a raccontare con i mille se.
Se non avessi ascoltato Luciano, che mi consigliò di tornare a Monlevade, e mi fossi fermata a B.H. altri due giorni, non sarei andata ad Ouro Preto.
Se giovedi mattina mi fossi svegliata più tardi, non sarei andata ad Ouro Preto.
Se non fossi andata nel negozio di Giuliano ad Ouro Preto, non mi avrebbe chiesto di andare alla festa.
Se Luciano non mi avesse dato il permesso di andare alla festa, io non avrei conosciuto Rafael, non mi avrebbe promesso di venire in Italia, non mi avrebbe detto che per lui ero unica, non mi avrebbe presentato mezza Ouro Preto compresa sua madre.
Se non mi avesse detto queste cose, io domenica mattina non avrei preso il pullman, fatto 2 ore di viaggio e non avrei avuto intenzione di aspettarne altre 5 per prendere il pullman che mi portasse da lui.
Se non avessi dovuto aspettare 5 ore tra un pullman e l’altro non avrei chiamato Giuliano chiedendogli di venire a prendermi alla fermata di Ouro Preto.
E se non l’avessi chiamato, lui non mi avrebbe detto: “Gaia, non venire per Rafael! Scusa, ma devo dirtelo: non illuderti, lui è fidanzatissimo da molto tempo”.

Così termina la mia storia brasilera.

lunedì 3 dicembre 2007

A comunidade de recuperaçao 2




Arrivata alla comunità maschile, ho avuto uno shock nell’osservare come i volti degli uomini e dei ragazzini fossero differenti tra loro.
Alcuni degli “ospiti”, si chiamano così quelli sotto trattamento, non mostravano assolutamente i segni di una vita dedicata alla droga, alcuni di loro li ho addirittura scambiati per i gestori del posto, per gli educatori.


“Domani vado a casa!”, ha detto a ianete uno dei ragazzi.
“Ho paura, sai, mio padre è stato il primo che mi ha messo in mano la droga, mio padre è stato colui che mi ha insegnato a sparare, il primo con cui ho ucciso un uomo!”.
La mia faccia ha mutato espressione, e la gioia che provavo nel vederlo felice si è tramutata in terrore per una vita che ha lasciato e presto rincontrerà.
“So bene che davanti alla droga adesso ce la posso fare a dire di no, ma non datemi una pistola perché so bene che ucciderò ancora!”.


Mi sono chiesta che colpa ne ha lui, perché tutto ciò è merito della gente che l’ha cresciuto.
Ho provato schifo verso suo padre, ma come sempre non potevo fare nulla.

“Cecilia, perché lo lasciate andare ancora a casa?”.
“cara Gaia, la sua vita è fuori, noi non possiamo certo tenerlo in cattività per il resto della sua vita! Purtroppo lui è uno che non ce la farà!”
Mi sono venuti i brividi, l’ho guardata con rabbia: “come puoi dire questo? Perché?”.
“Vediamo nelle parole, nel suono della voce, negli occhi chi ce la farà e chi no!”.
La mia rabbia mi ha dipinto il viso di rosso, non volevo sentire queste parole, andavano contro la sensazione di speranza che loro, i ragazzi, mi avevano infuso.

Mentre camminavamo verso casa ho pregato perché non fosse così, ma ho anche ringraziato Dio per la sua presenza che si sente tramite tutti coloro che lavorano gratuitamente per le vite in pericolo.

A comunidade de recuperaçao


Al mattino avevo appuntamento con Ianete, una ex tossicodipendente recuperata perfettamente che ora lavora come superiore nella stessa casa di recupero dove lei ha riscoperto la vita.
E’ entrata dal cancello automatico con la sorella.
Lei magrissima, ancora con i segni di dieci anni di droga, ben evidenti sul suo volto: i denti rovinati e scuri, le occhiaie violacee e le palpebre color fumo.
Ma il suo sorriso e il tono di voce erano di una persona di vita, felice e serena.
Mi ha accompagnato nella sua comunità dove ho conosciuto le nove ragazze attualmente “in gioco” con se stesse.
La terapia dura nove mesi, come un gestazione, perché il senso del cammino vuole proprio essere quello di rinascere a nuova vita.
Le ragazze mi hanno accolto con l’inno della comunità e le loro voci, le loro espressioni, la voglia che mettevano nel cantare la canzone, mi ha fatto commuovere.
Ho bloccato le lacrime appena in tempo.

Uma storia de amor...

29 novembre 2007



Non mi lascia un solo secondo, mi da la mano, mi accompagna ovunque, mi arrostisce pane e formaggio sapendo della mia poca propensione verso la carne.

La festa finisce ed io mi avvio per le stradine della città mano nella mano con lui, fino a casa sua.
Crolliamo addormentati: io, lui e l’amico.

30 novembre 2007

Alle sei e mezza entra nella stanza una pazza di colore, che urla cercando di svegliare i due per andare a messa, io capisco solo la parola “missa”, ma capisco meglio ancora che i due non si sono svegliati per nulla e non sembrano assolutamente vicini al risveglio.
Mi rimetto a dormire, senza riuscirci.
Finalmente anche lui si sveglia, mi prepara il caffè ed io mi faccio una doccia gelata.
Corriamo a prendere l’autobus che mi riporti a casa, anche se non ne ho nessuna voglia.
Alla stazione vado in bagno e mentre torno da lui, lo vedo seduto che mi guarda mentre mi avvicino, penso a quanto vorrei stare li, a quanto vorrei conoscerlo meglio.

Salgo sul pulman, mi aspettano sei ore di viaggio.
Inizio già a pensare a come rivederlo, ma intanto lo sentirò questa sera, su msn.

Dopo mangiato mi precipito su internet, ma non lo trovo, lo chiamo e mi risponde un altro ragazzo dicendomi che Rafael non c’è, di provare a richiamare più tardi.

Attacco, vado a letto, spero almeno di riuscire a sentirlo domani.

sabato 1 dicembre 2007

Ouro Preto - B.H.



“Andiamo a Ouro Preto, vuoi venire?
Accetto con piacere e mi ritrovo in una macchina con altre cinque persone: un autista amico di Luciano e quattro seminaristi.

“Ciao, todo bem?”, mi chiede un ragazzo biondo, probabilmente il responsabile del negozio di aritigianato.
“Non parlo portoghese; sono italiana!”, gli rispondo.
“Ah, eu vivo con italiano! Ven a festa esa note”, mi invita.
“Ah, magari, ma sono solo di passaggio e non credo mio zio mi lascerà”, rispondo sconsolata, ma dopo un attimo gli dico che avrei provato a chiedere a Luciano.

Corro alla macchina e chiedo all’amico taxista di farmi chiamare Luciano.
“Pronto, sono Gaia, senti, ho conosciuto un ragazzo italiano che studia qui, posso restare per la notte?”, supplico al tefono.
“Si, se credi che sia opportuno, puoi!”.


Arriviamo alla festa e finalmente entra l'amico incontrato poco prima per la strada.

Passo la serata a sperare che mi parli, anche se sembra che non mi veda nemmeno, ma...

27 novembre 2007- B.H.


Usciamo presto di casa e andiamo in centro, da li partiremo per tornare a Monlevade.
Mi meraviglio della città, sembra di camminare a Londra o a Parigi, le vie commerciali sono estremamente curate, al contrario di Lima.
Luciano va per negozi sacri, io per meri negozietti di scarpe.
Finalmente incontro un paio di sandali che mi piacciono e decido di raggiungere Luciano più tardi.
Mi siedo per provare le scarpe e la ragazza che stava vicino a me inizia a parlarmi.
Finiamo così per scambiarci i numeri di telefono per un mio eventuale ritorno in quella città tanto affascinante.

Saliamo in macchina e lasciamo Beo Horizonte.
“Meno male che sorridi a volte!”, mi dice Luciano lasciandomi di stucco.
“Come a volte, se rido sempre io?”
“cosa? Non credo che alla gente che ti vede una volta rimanga l’idea di te di una ragazza che ride!”.
Mi offendo seriamente e cerco di fargli capire che sono ben lunatica, ma che per la maggiorana della mia giornata io rido e ne sono consapevole.
Le persone che ho incontrato, i ragazzi che ho conosciuto, mi hanno sempre parlato poi del mio sorriso solare, come può lui dirmi che mai sorrido?

Mi porta sul punto più alto di Beo Horizonte e vedo la natura intorno alla città, uno spettacolo gratificante.
Riprendiamo la macchina, andiamo a casa.

In brasile: Monlevade - Beo Horizonte


Arrivai in brasile dopo un giorno e una notte di viaggio...


Arrivammo alla casa dove visse per 15 anni.
Grande e allo stesso tempo semplice e non ostentata.
Conobbi padre Gigio, padre Martin e padre Norberto: un mix di Italia, Perù e India.
Personaggi indiscutibilmente sui generis.

Mi addormentai un po’ frastornata ed il mattino mi risvegliai completamente rimbecillita.
Mi dedicai alla chat, trovando una connessione wireless e più tardi aiutai Luciano a tagliare l’erba.
Parlai con Fabio, Efi, Ale e Michi e la cosa più bella che mi sentii dire fu “Ma ti sono cresciuti i baffi!”.
Ma li amo così come sono!

“Gaia, andiamo a mangiare da Mariuda”, sentii il mio cuore palpitare più forte del previsto ed ebbi un moneto di sconforto.
Come se non sentissi nulla di positivo in quella casa, come se quella famiglia mi trasmettesse un’energia a me estranea, indesiderata.


I sorrisi in quella casa erano carichi di sforzo e convenienza, gli unici che mi sembrarono felici: i due fratelli gemelli. Grandi, grossi, con il labbro leporino e qualche problema a relazionarsi con gli altri: non si presentarono, quando arrivai, ma iniziarono a lanciare ogni cosa che capitasse sotto tiro. Due veri esemplari di forza bruta.