giovedì 10 aprile 2008

Perchè ai più buoni.

Terminato con loro parlo un po’ con Renè, questo ragazzo mi sembra veramente bravo, mi aiuta con i ragazzini, a pazienza, è sempre puntuale.
Gli chiedo se ha bisogno di soldi, per iscriversi ad un corso che prepara al test di ingresso alla università.
Rifiuta cordialmente la mia offerta e mi dice di non abituarlo male, che loro, i peruviani, sono gente che si lascia viziare e poi per tutta la vita vogliono qualcuno che li accontenti nei loro capricci.
Lo saluto, rimandando l’interessante discussione al lunedì e rientro al comedor dove trovo Daniel, il fratello di Andres.
“Perché non sei venuto stamattina a fare i compiti?”, gli chiedo io.
“Mia madre è stata ancora male”, mi risponde con la bocca piena di pollo.
Lascio tutto e corro da sua madre, la trovo distesa su un letto che più che un letto è una tavola di legno con sopra delle lenzuola.
Non parla molto, mi fa cenno con la mano di sedermi di fianco a lei.
A malapena capisco il suo racconto, ma intendo quello che mi vuole dire.
Mi parla di quando domenica, al campo da calcio con Andres, si è sentita male, di come l’hanno portata all’ospedale e di come i dottori l’hanno trattata, assistendola male e di fretta, dimettendola quando ancora era in preda alle convulsioni.
La madre di Andres e Daniel soffre di una malformazione al cervello che le provoca delle alterazioni sensoriali e muscolari alla parte sinistra del corpo.
Le lacrime le affiorano dagli occhi, mi dice che ha paura che i suoi bambini rimangano soli, che lei muoia e loro rimangano senza madre, poi si ferma.
Con un filo di voce mi dice: “la mano, di nuovo le convulsioni!”.
Vedo le dita che si irrigidiscono, le prendo la mano tra le mie e la accarezzo. Dentro di me sento un profondo senso di impotenza, ma una grande forza, quella dell’amore.


Cosa posso dire io, venticinquenne viziata dall’occidente ad una madre consapevole di spegnersi attimo dopo attimo?
Cinque mesi fa Enrico mi aveva portato proprio in questa casa, a conoscere il suo caso, da allora lei è diventata una delle “tappe” che percorro settimanalmente. Cinque mesi fa, davanti ad Enrico, mi sono trovata a voler scappare, a voler fuggire da quell’odore, da quella donna, da quel dolore.
Oggi la cerco io, le voglio bene, l’odore mi è familiare e il dolore grande, ma sopportabile perché condiviso, sempre grande all’amore, che il Signore ci regala e ci insegna a regalare.


Piano piano il suo corpo si rilassa e la lascio riposare.
Piano piano il suo corpo si rilassa e la lascio riposare.

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