domenica 6 aprile 2008

La mia impotenza verso il loro dolore.


“Yeferson! Vai a casa , prendi i tuoi quaderni e facciamo i compiti! Sennò tua madre mi sgrida!”, dico ad alta voce, cercando di farmi sentire tra tutte quelle grida di bambini scatenati.
Guardo Yeferson e noto che si sta cercando di nascondere, si sta coprendo la sua faccia con lo zaino.
Mi avvicino, credendo stesse giocando, li tolgo lo zaino. Mi ritrovo davanti una faccia in lacrime.
Il bambino cerca di andarsene di sopra con gli altri, ma io lo fermo giusto in tempo, avrebbe provocato un tale disordine su di sopra che a stento sarei riuscita a tenerli buoni per 3 ore.
Ci mancava il fatto che oggi fossi SOLA!
Il bimbo continua a piangere, con la faccia coperta dalla sua felpina arancione.
Cerco le sue mani e sento la rigidità del suo corpo, i muscoli sono contratti, è in uno stato di chiusura totale.
Così non riuscirei nemmeno a prenderlo in braccio.
Vado in bagno e prendo un po’ di carta igienica; inizio ad asciugargli gli occhi pensando che si sarebbe ritratto, invece no. Rivolge i suoi occhi a me, cercando il mio sguardo, io gli sorrido, ma sono scossa mentre guardo i suoi occhi pieni di lacrime, ferme sui bordi delle palpebre, come se fossero finte.
Provo di nuovo a chiedergli se sia colpa mia tutto questo, ma non mi risponde, non muove nemmeno la testa per annuire. Rimango li in silenzio, non capisco come, dove io trovi la pazienza che sto dimostrando.
Jeferson è un bimbo che mi ha subito colpito, fin dall’inizio, per le maniere educate, per i modi di fare assolutamente posati, per il sorriso che ammalia, per quegli occhi dentro ai quali leggi una storia tristissima e un tentativo di lotta. Vederlo senza forze, triste, e forse a causa mia, beh, è una sensazione bruttissima. Come di una mamma che deve sgridare il suo bimbo anche se gli vuole bene, e gliene vuole tanto.

“Gustavo, aiutami!”, supplico il figlio di Mari Cruz, è una buonissima persona e ci sa molto fare con i bambini. Ha la “fortuna” di vivere come loro la povertà e quindi di capirli molto meglio di quanto possa fare io.

Gustavo si rialza, mi guarda: “sua madre non c’è e lui non può venire in piscina perché non ha soldi”.
Il mio cuore si fa piccolo piccolo, senza sapere bene perché; mi avvicino al mio bimbo, lo guardo, mi siedo su un muretto vicino e lo chiamo. Si volta e, osservandomi, si avvicina a me, si siede in braccio e scoppia a piangere un’altra volta, questa volta però, le sue braccine si stringono forte a me, la sua testa contro la mia gola, le sue mani si attaccano alla mia maglietta.
“Calmati, Jeferson, non preoccuparti. Lo so che la tua mamma lavora e non la vedi se non il sabato alla sera. Non preoccuparti hijo!”, quel bimbo ha su di me un potere immenso, il bene che gli voglio è palpabile.
“Mi manca la mia mamma!”
A questo punto non so che fare. L’unica cosa è dirgli che la vedrà presto e stingerlo più forte di prima.

Andiamo in biblioteca dagli altri e sto con loro fino alle sei e mezza, mangio con loro e resto per la lezione di musica, tutto questo con una grande sensazione di impotenza verso le loro esigenze, verso le loro paure.

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