mercoledì 7 novembre 2007

Se non vedo non credo!

Arrivo trafelata al comedor, sono in ritardo mostruoso perché mi sono soffermata un po’ troppo in chiacchiere su msn.
“Aho! Io ti busso alla porta e nessuno mi risponde!”, mi grida Enrico.
“Come, quando?”
“Sono venuto stamattina alle nove e non mi ha risposto nessuno, almeno salivamo insieme! Ti avevo comprato le fragole, ma le ho lasciate da Suor Lucia! Va beh, che vuoi fa? Gliele vado a richiedere?!”.
Rido, mi scuso per l’udito pessimo e mi lavo le mani nel bagnetto della sala degenza.
Iniziamo a parlare di una delle ragazzine che partecipano al programma adozioni.
“G. non ha nulla, sua madre l’ha smollata al padre appena è nata, il padre un giorno è arrivato qui, da sua madre e, dicendo che andava a comprare le sigarette, l’ha smollata a sua volta alla nonnetta”.
“Ah, quindi vive con qualcuno, cioè, non muore di fame?”, chiedo aspettandomi una risposta positiva.
“Dai, andiamo a casa sua, forza! Così capisci tu da sola”.
Non fu molto promettente tutto ciò.
Prendiamo dall’armadio il Voltaren e ci avviamo insieme alla casa.


Non c’è porta, ma delle assi di legno ammassate che lasciano solo, a chi le vede, la possibilità di utilizzare tanta fantasia e pensare ad una porta.
Ci infiliamo tra queste assi, lo spiazzetto del “cortile interno” mi regala un assaggio della situazione che avrei meglio conosciuto.
Un coniglio, un gatto, un cane e tutte le loro feci donano al luogo un odore nauseante, la signora spunta dal prefabbricato di mattoni color sabbia e con lei esce una storia.
“Attenta, non baciarla che ha la tubercolosi!”, mi avverte Enrico.
Le stringo la mano e mi accorgo che le venature sui palmi e sulle dita sono intrise di sangue rappreso.
Ingoio saliva, cerco di non tremare, mi faccio forza ed entro.
Vedo uo marito, i suoi occhi grigi denotano una cataratte in stato avanzatissimo, le sue mani non si muovono, alza un braccio e io allungo la mia mano per accogliere il suo sforzo di salutarmi.
Ho tanta paura di qualche contagio, ho schifo, ma il cuore cede, l’amore ha il sopravvento e mi calmo.

Guardo intorno, due letti con solo materasso e coperta, cacca di coniglio ovunque, la signora sembra non accorgersene, polvere ovunque, una cucina a gas, un tavolo e qualche sedia e il nonno, ormai parte integrante dell’arredamento, visto che non può muoversi, non può cucinare, non parla molto.
Sto per cedere.
“Enrico, mi viene da piangere!”.
“Questo è, Gaia, aspetta però, ascolta”.

La signora inizia a parlare, la sua voce si interrompe continuamente da deboli colpi di tosse, mi dice di non preoccuparmi che non mi contagia, io arrossisco e le sorrido, il mio volto assume soluzioni impensate per non esternare ciò che provo.
“Dobbiamo mettere G. in collegio, primo perché qui non rispetta sua nonna, secondo perché impari che la vita si guadagna, terzo perché non finisca tra due anni a prostituirsi!”.
Guardo Enrico sbalordita. Come si possono dire queste cose?
Inizio poi a comprendere che questa è la normalità delle cose.

“La signora sa che non durerà molto. E di g. che ne sarà?”.
Non lo so!
Enrico e Aida le pagano tutto, la trattano come una figlia, stavano per adottarla, perché non ha un cognome, i suoi genitori non l’hanno riconosciuta, ma poi le ha iniziato ad ostentare la sua fortuna, ha iniziato a vantarsi dei regali, dei soldi che le davano, e tutto ciò davanti ad altri bambini che non avevano nulla.
Questo ha spinto la coppia a lasciarla vivere la, ma continuano ad aiutarla.
I nonni non lavorano e non possono cucinare: il nonno è bloccato su una sedia, la nonna ha un’artrite deformante che le impedisce anche solo di girare la manovella dei fornelli per accendere il fuoco.

Usciamo da quella casa e entriamo in quella di A. e D.
Il padre ha abbandonato tutto e tutti, la madre soffre di una rara malattia che le provoca convulsioni che calma con il Valium. Una confezione di Valium costa 200 soles: una cifra impossibile da pagare se pensiamo al fatto che la mamma non lavora e che la nonna fa la sarta.
Un guadagno mensile normale è di 600 soles, che equivale a 150 euro, ma si parla di gente che ha un lavoro fisso.
Li a La Era la gente non ha lavoro, la gente guadagna anche 100 soles al mese.

Mi chiedo e mi domando ogni secondo come facciano.

La risposta che ricevo è: Dio ci manda persone buone, ce la facciamo con fatica, ma per giorni non mangiamo.

Il cuore mi diventa sempre più piccolo e penso agli sprechi quotidiani di Milano.
Mi sento male.

La mamma di A. e D. li lascerà tra poco, la lacerazione al cervello diventa sempre più grossa e le ha fatto perdere quasi tutti i denti, le ha provocato una malformazione alla mandibola; le guardo le gambe: sono la metà delle mie.
Una creatura più di la che di qua.

Usciamo anche da quella casa, andiamo al comedor e mangiamo con i ragazzini.
Alle tre do lezioni di italiano, i ragazzini sono sempre più numerosi, sempre più attenti.
Oggi: i colori, i giorni della settimana, i mesi dell’anno, i vestiti.
Faccio frasi alla lavagna e mi accorgo che non posso utilizzare diverse espressioni.
Sono vietate:
oggi mi sono comprata, ieri sono andata al cinema, le scarpe nuove sono blu, oggi ho mangiato la pizza…

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