domenica 28 ottobre 2007

La mia via crucis: Cachicoto




Il giorno seguente andai con Luciano e Ilba e Cachicoto, un paesino e due orette da Tingo.
Non prendemmo la macchina, ma un taxi.
Pagammo 80 soles andata e ritorno: circa 20 euro per 4 ore di viaggio.
Non mi aspettavo certo di passare 4 ore della mia giornata a rimbalzare sul sedile della macchina per le buche che costellavano la stradina di fango.
A metà strada gridai che per me era troppo, che un calvario tale non me l’ero scelto.
Certo avrei potuto fare a meno di piangermi addosso mentre vedevo la gente seduta nella terra che supplicava giustizia, ma fu una sensazione insopportabile: i miei organi interni sballottati come budino su e giù, faceva effettivamente male.
Per le ore a seguire, tenni gli addominali sempre tesi e migliorò un po’ la situazione.
Arrivammo alla chiesa la gente era estremamente felice di vedere finalmente un prete che celebrava, dal canto mio avrei voluto dormire, ma stetti a messa.
Seconda tappa della mia via crucis: abituata ad una casa a Nana dove gli insetti sono solo zanzare, mi misi praticamente a piangere quando vidi che sul soffitto volavano delle vespe due volte più grandi di quelle italiane.
Volevo scappare, uscire da quel posto a mio parere invivibile.
Tenni duro, la messa finì.
Terza tappa: la benedizione.
Vidi il responsabile della chiesa portare un secchiello sporco con dell’acqua beige. Luciamo prese un fiore dall’altare e scese dai fedeli in attesa di essere bagnati con l’acqua benedetta.
Conoscendo Luciano mi avrebbe rovesciato metà di quel liquido in testa. Pensai “in Italia non succederebbe mai, speriamo che ci pensi e non mi bagni”.
Lo guardai e capii le sue intenzioni, mi misi il cappuccio: per i pidocchi avrei voluto aspettare ancora un po’.

Dopo la benedizione mi soffermai in fondo alla chiesa e vidi con stupore che la gente non era uscita, ma aveva formato una fila davanti al padre che imponeva le mani con profondo rispetto verso quelle persone imploranti.
Mi domandai come fanno a credere che un uomo guarisca, il mio scetticismo supera il limite della blasfemia a volte.
Luciano mi disse che la gente ha bisogno di segni, ha bisogno di presenza, questa era la loro fede.
Mi piacerebbe che anche in Italia fosse cosi, che la gente credesse di più nella figura del prete come testimone diretto di Dio, come suo servo.

Quarta tappa: il pranzo.
Eravamo stati invitati dal sacrestano per il pranzo.
“questa volta sono preparata, non mi aspetterò nulla come se fossi in Italia”, pensai, ma mi dovetti ricredere e feci la mia solita figuraccia da occidentale irriverente.
Avevano infatti preparato pasta al sugo, patate fritte e pollo.
I piatti erano già pronti e il pollo troneggiava su ogni mucchietto di patatine, poste accuratamente in ogni piatto.
Guardai amareggiata: “Yo no como carne, perdoname!”
“No se preocupe, esto es pollo!”
Fantastico!
Mi toccò spiegare che sia il pollo che il pesce per me è carne e che quindi non avrei potuto mangiarlo.
Tornai nella stanza dove avremmo mangiato e pensai che avrebbero tolto dalle patate quel tocco di carne che avevo rifiutato.
Mi sentivo svenire, è oramai da 5 anni che non tocco cibo “contaminato” da un essere morto e ora avrei dovuto farlo.
Volevo scappare anche da li, dire in modo scocciato che insomma, se dico che non la mangio non voglio nemmeno cibarmi di quello che è stato a contatto con ciò che non mi piace, che bisogna avere rispetto per l’ospite…
Non dissi nulla, mangiai senza lamentarmi, con la nausea che mi passò quando assaggiai la pasta cucinata con amore in pentole sudice, da mani sporche, ma di cuore.
Sopravvissi così alla quarta prova.

Quinta tappa: la stretta di mano.
Nel momento di congedarmi, come sempre, strinsi mani e diedi baci.
Nel momento di salutare l’uomo di casa mi vennero in mente le sue mani che avevo notato a tavola.
La sagoma delle unghie erano completamente contrassegnate dal nero della terra e dello sporco infiltrato, in più ero rimasta scioccata dal fatto che, non solo non se le era lavate prima di sedersi a mensa, ma avesse mangiato il pollo con le mani, senza mai pulirsi nel tovagliolo, e approfittando della sua bocca per togliersi i rimasugli di carne e l’unto.
Superai anche quella prova.

Sesta tappa: il bagno.
Fu breve, una breve ammissione di assenza di coraggio.
La sesta prova fu troppo e desistetti dal dimostrarmi all’altezza della situazione.
Uscimmo dalla casa, mi scappò come sempre la pipì.
“Luciano vado in bagno, faccio pipì e poi partiamo”.
Corsi nel bagno della parrocchia, aprii la porta sperando come chi è convinto di vedere la salvezza e mi ritrovai uno sciame di vespe doppie (io le chiamo così perché sono enormi: il doppio di quelle italiane), urlai, chiusi la porta e mi precipitai alla macchina agitando le mani come per allontanarmi la visione appena gustata.
Salii in macchina e a metà strada maledissi la mia paura, in quel momento l’avrei fatta anche tra i leoni.

1 commento:

Unknown ha detto...

wow......insomma brava gaia!