venerdì 9 novembre 2007

Il Minestrone

Apro gli occhi perché fuori dalla mia porta si è riunito un comizio, o almeno così mi pare.
Trascino le mie gambe fino al bagno e mi butto nella doccia dove piano-piano i sensi iniziano a risvegliarsi.
Godo di una colazione ottima, meglio che a Milano, soprattutto perché qui è già pronta, e mi preparo per uscire.
“Vado, Luciano, ci vediamo alle cinque!”.
“Ma non ci sei nemmeno oggi a mezzogiorno?”.
“No, vado alla Era, abbiamo una campagna medica. Poi filo al “Sabiduria” a dare lezioni di italiano, poi arrivo!”.
Mi allontano, esco dalla porta, me la chiudo alle spalle e mi accorgo di aver dimenticato la croce che Luciano mi aveva dato il giorno prima!
Se si indossa una croce si ha una protezione in più: qui anche i ladri e gli assassini rispettano molto la chiesa.

Arrivo al Puerto di Nana, dove dovevo incontrarmi con Enrico.
E’ li che sorride e mi viene incontro.
“Andiamo al mercato, compriamo le fragole, poi ti presento Suor Lucia”.
Entriamo al mercato e l’odore di carne cruda mi regala momenti di nausea. Andiamo a comprare le fragole e la papaia per le suore, ma la mia attenzione viene richiamata da delle strane confezioncine di verdura.
“Quello è il minestrone. Sono i vari scarti della verdura che vengono tagliati ed infilati delle buste che vedi li. Loro lo mettono nell’acqua, lo scaldano ed ecco il minestrone!”.
La cosa esilarante è che se penso al nostro minestrone, che sia surgelato o meno, ha un peso pari al triplo di quel preparato che trovo qui; e la da noi è per tre o quattro persone, qui quella quantità verrà utilizzata per otto pance.

Usciamo dal mercato e saliamo sul combi.
Enrico mi cede l’unico posto libero e rimane in piedi. Rimanere in piedi non vuole dire “in piedi su un autobus italiano. Rimanere in piedi qui vuole dire rimanere piegati e sballottati da una parte all’altra perché il combi ha un’altezza di circa un metro, e le strade sono piene di sassi e buche.

A metà strada si libera un posto e vedo Enrico sudato e rosso per lo sforzo che ha fatto per riuscire a rimanere in piedi.

mercoledì 7 novembre 2007

Se non vedo non credo!

Arrivo trafelata al comedor, sono in ritardo mostruoso perché mi sono soffermata un po’ troppo in chiacchiere su msn.
“Aho! Io ti busso alla porta e nessuno mi risponde!”, mi grida Enrico.
“Come, quando?”
“Sono venuto stamattina alle nove e non mi ha risposto nessuno, almeno salivamo insieme! Ti avevo comprato le fragole, ma le ho lasciate da Suor Lucia! Va beh, che vuoi fa? Gliele vado a richiedere?!”.
Rido, mi scuso per l’udito pessimo e mi lavo le mani nel bagnetto della sala degenza.
Iniziamo a parlare di una delle ragazzine che partecipano al programma adozioni.
“G. non ha nulla, sua madre l’ha smollata al padre appena è nata, il padre un giorno è arrivato qui, da sua madre e, dicendo che andava a comprare le sigarette, l’ha smollata a sua volta alla nonnetta”.
“Ah, quindi vive con qualcuno, cioè, non muore di fame?”, chiedo aspettandomi una risposta positiva.
“Dai, andiamo a casa sua, forza! Così capisci tu da sola”.
Non fu molto promettente tutto ciò.
Prendiamo dall’armadio il Voltaren e ci avviamo insieme alla casa.


Non c’è porta, ma delle assi di legno ammassate che lasciano solo, a chi le vede, la possibilità di utilizzare tanta fantasia e pensare ad una porta.
Ci infiliamo tra queste assi, lo spiazzetto del “cortile interno” mi regala un assaggio della situazione che avrei meglio conosciuto.
Un coniglio, un gatto, un cane e tutte le loro feci donano al luogo un odore nauseante, la signora spunta dal prefabbricato di mattoni color sabbia e con lei esce una storia.
“Attenta, non baciarla che ha la tubercolosi!”, mi avverte Enrico.
Le stringo la mano e mi accorgo che le venature sui palmi e sulle dita sono intrise di sangue rappreso.
Ingoio saliva, cerco di non tremare, mi faccio forza ed entro.
Vedo uo marito, i suoi occhi grigi denotano una cataratte in stato avanzatissimo, le sue mani non si muovono, alza un braccio e io allungo la mia mano per accogliere il suo sforzo di salutarmi.
Ho tanta paura di qualche contagio, ho schifo, ma il cuore cede, l’amore ha il sopravvento e mi calmo.

Guardo intorno, due letti con solo materasso e coperta, cacca di coniglio ovunque, la signora sembra non accorgersene, polvere ovunque, una cucina a gas, un tavolo e qualche sedia e il nonno, ormai parte integrante dell’arredamento, visto che non può muoversi, non può cucinare, non parla molto.
Sto per cedere.
“Enrico, mi viene da piangere!”.
“Questo è, Gaia, aspetta però, ascolta”.

La signora inizia a parlare, la sua voce si interrompe continuamente da deboli colpi di tosse, mi dice di non preoccuparmi che non mi contagia, io arrossisco e le sorrido, il mio volto assume soluzioni impensate per non esternare ciò che provo.
“Dobbiamo mettere G. in collegio, primo perché qui non rispetta sua nonna, secondo perché impari che la vita si guadagna, terzo perché non finisca tra due anni a prostituirsi!”.
Guardo Enrico sbalordita. Come si possono dire queste cose?
Inizio poi a comprendere che questa è la normalità delle cose.

“La signora sa che non durerà molto. E di g. che ne sarà?”.
Non lo so!
Enrico e Aida le pagano tutto, la trattano come una figlia, stavano per adottarla, perché non ha un cognome, i suoi genitori non l’hanno riconosciuta, ma poi le ha iniziato ad ostentare la sua fortuna, ha iniziato a vantarsi dei regali, dei soldi che le davano, e tutto ciò davanti ad altri bambini che non avevano nulla.
Questo ha spinto la coppia a lasciarla vivere la, ma continuano ad aiutarla.
I nonni non lavorano e non possono cucinare: il nonno è bloccato su una sedia, la nonna ha un’artrite deformante che le impedisce anche solo di girare la manovella dei fornelli per accendere il fuoco.

Usciamo da quella casa e entriamo in quella di A. e D.
Il padre ha abbandonato tutto e tutti, la madre soffre di una rara malattia che le provoca convulsioni che calma con il Valium. Una confezione di Valium costa 200 soles: una cifra impossibile da pagare se pensiamo al fatto che la mamma non lavora e che la nonna fa la sarta.
Un guadagno mensile normale è di 600 soles, che equivale a 150 euro, ma si parla di gente che ha un lavoro fisso.
Li a La Era la gente non ha lavoro, la gente guadagna anche 100 soles al mese.

Mi chiedo e mi domando ogni secondo come facciano.

La risposta che ricevo è: Dio ci manda persone buone, ce la facciamo con fatica, ma per giorni non mangiamo.

Il cuore mi diventa sempre più piccolo e penso agli sprechi quotidiani di Milano.
Mi sento male.

La mamma di A. e D. li lascerà tra poco, la lacerazione al cervello diventa sempre più grossa e le ha fatto perdere quasi tutti i denti, le ha provocato una malformazione alla mandibola; le guardo le gambe: sono la metà delle mie.
Una creatura più di la che di qua.

Usciamo anche da quella casa, andiamo al comedor e mangiamo con i ragazzini.
Alle tre do lezioni di italiano, i ragazzini sono sempre più numerosi, sempre più attenti.
Oggi: i colori, i giorni della settimana, i mesi dell’anno, i vestiti.
Faccio frasi alla lavagna e mi accorgo che non posso utilizzare diverse espressioni.
Sono vietate:
oggi mi sono comprata, ieri sono andata al cinema, le scarpe nuove sono blu, oggi ho mangiato la pizza…

Povertà di spirito...


Cammino per la strada de La Era ed incontro facce note, che mi salutano.
Io ricambio con il sorriso e porto il mio sguardo verso la terra, verso quella sabbietta fine che invade le strade, quella stessa sabbia che abita le case e si traduce in polvere perenne che ricopre ogni cosa, ogni oggetto.
Guardo le case, anche loro color sabbia, le osservo con incredula resa.
Sono sporche, paiono abbandonate, mi chiedo se ci siano fantasmi o persone reali li dentro, poi vedo dalle finestre con i vetri rotti che la gente c’è e si muove e vive dentro quei mattoni accatastati alla buona.
I bagni sono un lusso.
Con bagni intendo uno stanzino nel cortile, fuori dalla casa, con una tazza, senza la doccia, senza lavandino.

La polvere viene risvegliata ogni minuto dai numerosi autobus (il nostro fiorino) che arrancano sulle pendici sassose dei piccoli pueblitos.
Urlano “puerto!” e la gente fa segno con la mano perché si fermino.
“Sube, sube!” sbraita l’apriporta.
La gente sale.
E sale dove vuole: non esistono le fermate.
La gente decide dove salire e dove scendere.
Si possono anche fermare 10 volte nel giro di pochi metri.
La gente comanda, l’autista obbedisce.
Ci si ammassa tutti in un piccolo spazio, odori e corpi ti assalgono come se fossi parte del mezzo di trasporto. Ti schiacciano contro il finestrino per sedersi anche se di posto non ce n’è più.
In Italia ognuno ha il suo sedile, qui ci sono panche lunghe e anche i sedili vengono sfruttati al massimo, la gente li sfrutta, la gente ti schiaccia, perché l gente qui è aggressiva e comanda.

Respiro piano piano la mentalità del popolo peruviano.
Mi accorgo della veridicità delle parole dell’inizio “noi non amiamo i poveri perché sono santi. Li amiamo perché sono poveri”.
E la povertà non ti unisce, ti disarma, ti riduce ad essere cattivo, aggressivo, sleale.
Tutto per poter mangiare.

Il povero, se aiutato, molte volte non ringrazia, molte volte chiede di più e si arrabbia molto se non ottiene ciò che chiede.
I poveri non si accontentano spesso.
I poveri si univano prima, collaboravano. Ora si sbattono le porte in faccia, perché stanno meglio di prima, ma sono nella miseria comunque.
Ci sono poveri, quelli poveri in spirito, che lottano ancora, che ti amano perché gli dai una busta di riso, che ti ringraziano mille volte solo perché sei andato nelle loro case per salutarli.
I poveri di spirito sono anche i bambini, ma c’è il pericolo che crescano senza mantenersi tali.

L’educazione qui è realmente un tasto dolente.

domenica 4 novembre 2007

Al comedor


Martedi mi stavo preparando per andare da Enrico e mi chiamò Sanfilippo, spiegandomi che aveva ricevuto la mail di protesta che io stessa avevo inviato a Don Paolo.
Mi tranquillizzò, mi confermò la difficoltà a partecipare alle loro missioni, ma per un semplice motivo di preparazione, che avviene tra di loro, per anni, in Italia.
Accettai la sua versione e mi disse di provare ad andare alla casa un’altra volta, vedere e sperimentare la loro vita. Poi ne avremmo parlato a Milano e da qui mi avrebbe seguito lui un po’.

Fui felice della sua disponibilità, ma altro aleggiava nell’aria.
Andai a vedere il comedor di Enrico e mi trovai benissimo.
I bambini erano entusiasti di vedermi.
Mi chiesero subito un sacco di cose, mangiai con loro, non mi fermai la il pomeriggio.
Ma mi accordai per andare la il venerdì seguente; loro non ci sarebbero stati ed io avrei potuto stare con i ragazzi.
Mi diedero completa autonomia e lo presi come un segno.
Non proprio evangelico, ma più o meno direi: non tutto il male viene per nuocere! Pensando a ciò che era successo con quelli dell’organizzazione del Matogrosso.

Halloweeeeeeeeen

Il mercoledì di Halloween, riuscii ad ottenere il permesso per andare alla discoteca.
Non mi sembrò vero, ma lo feci sul serio.
Ovviamente alle dipendenze di qualcuno, e questa volta, la cosa umiliante era che quel qualcuno aveva sette anni meno di me!
Stefany è la nipote di Charo, l’amica di Luciano alla quale ho portato l’insulina.
E’ una ragazza grassottella, piena di vita, come tutti a quell’età; alla mia già si avvertono i primi segni di invecchiamento: pigrizia, problemi inutili, depressione.
Mi presentò i suoi conque amici e le sue tre amiche davanti alla discoteca ed io feci bene i conti, cinque e cinque, li rifeci meglio.
Capii!
Capii che avrei ballato tutta la sera con uno di quei ragazzini diciottenni senza poter scegliere, accettando chiunque di loro mi avrebbe porto la mano.
Allora pensai, mi sono fregata per la seconda volta con le mie mani.

Entrammo e ognuno di noi si trovò davanti una caraffa da un litro di birra.
Pagai diciassette soles sia l’entrata che la consumazione. Il che vuole dire che pagai 4 euro per bere e ballare.
Nascosi il mio pacchetto di sigarette perché compresi bene come sarebbe finita, visto che nessuno di loro aveva sigarette, ma tutti loro volevano fumare.
Passarono la serata a chiedersi da dove cavolo le scroccassi.
Mi prese la mano uno di loro e credetti di morire: grasso, pizzetto, brufoli adolescenziali.
Per fortuna era veramente simpatico e parlammo qualche minuto mentre cercavo di capire che tipo di musica stava sentendo lui in quel momento, visto che i suoi piedi ballavano con un ritmo diverso da quello che tutta la discoteca aveva adottato.
Dopo un po’, ringraziai e mi allontanai dalla pista in direzione tavolo della salvezza.
Non feci in tempo ad arrivare la che un ragazzino, molto carino, ma altrettanto giovane, mi chiese di ballare.
“Scusa, no comprendo!”.
Risposi, poiché non avevo alcuna intenzione di cascare tra le braccia di un altro, visto che mi ero appena liberata.
“Ok, do you speak english?”, l’ottima pronuncia mi lasciò di stucco.
“Yes, I do?”.
“Do you wanna dance with me?”, ero stata sedotta dal suo inglese, ebbene si!
“Yes, vamos a bailar!”, dissi io, lui rise e mi portò da dove ero fuggita dieci secondi prima.
Le luci frastornanti mi impedivano di concentrarmi sul suo volto, mi dedicai al pavimento e alla folla circostante.
Ballai con gli occhi chiusi, mi trascinava la musica e il suo sapiente ballo.
“Esta es salsa!”, urlò.
“No, puedo. No se bailar salsa!”.
No mi lasciò andare, ma con pazienza mi insegnò le poche e semplici cose da sapere, ballammo salsa.
Il resto della serata lo passai un po’ con lui ed un po’ con lui ed il suo amico.
Non vidi Stefany per gran parte della notte.
Mi venne a chiamare alle cinque, quando dovevamo andare.
Le chiesi dove avrei potuto trovarla dopo, poiché avevo intenzione di fermarmi con Marco ancora un po’.
“No se puede Gaia. Usted viene con nostro!”.
Cedetti per la stanchezza, ma lo stomaco si strinse più che mai.

Avrei avuto voglia di scappare e mandare tutti a quel paese, ma non lo feci.
Mite come un agnellino mi addormentai nel taxi che ci lasciò a casa della sua amica, da li un altro ci portò, poco dopo, a casa sua.
Dormii su un materassino gonfiabile sgonfio. Cercai di dormire. Ci riuscii. Erano anche le sei e venti!

Viva Roma...

Pochi giorni fa ero davanti al collegio Sabiduria, dove studiano 1.200 ragazzine, dagli undici ai diciassette anni.
Entrò un tipo sulla trentina, poi venni a scoprire che ne aveva quarantadue, che parlava lo spagnolo con un accento conosciuto.
Rimasi in silenzio, fissandolo mentre parlava con il portiere della scuola.
Alla fine mi decisi ad aprire bocca: “tu non sei peruviano, sei de Roma!”.
“Terracina. E tu nemmeno sei peruana!”.
No, nemmeno io lo ero, ed ero felice di aver incontrato un italiano qui.
“E che ce fai qui?!”.
“Beh, sono venuta qui ad aiutare un po’, vivo con i monfortani. Conosci padre Luciano?”.
“E l’ho sentito nominà, ma dirte che in cinque anni che viaggio qua non ce siamo visti, me credi?”.
“Beh, lui era in brasile. Ma se vuoi te lo faccio conoscere io”.
Conversammo per quasi un’ora e mi raccontò dell’opera che aveva fatto a La Era, un quartiere veramente disagiato nei dintorni di nana.

Ci accordammo per vederci il giorno seguente.

Tornai a casa, passai tre ore a chattare con amici e mi sentii priva di possibilità missionarie.
Mi ricordai del Matogrosso, e feci un salto alla loro casa.

Fu talmente umiliante che tornai con le lacrime agli occhi.
Mi accolse una signora e una tipa della mia età, entrambe conoscevano Paolo Sanfilippo.
Mi spiegarono che, non facendo parte di un gruppo del Matogrosso la in Italia, non avrei potuto fare un esperienza con loro.
Ma è possibile???
Uno per fare del bene deve avere il tesserino???
Chiesi loro se c’era la possibilità di conoscerli in questi mesi, per poi unirmi a loro a gennaio e la risposta fu: “no, è difficile perche non condividi il messaggio del Matogrosso, non puoi capirci..”.

Lasciai la casa della delusione e tornai alla mia.
Mi sentii più forte, senza sapere il perché.

Insomma, iniziò tutto così.
Con una delusione.

Mai più!!!

Penso a ieri sera e alla meravigliosa serata in discoteca!
Dopo la messa arrivarono le ragazzine della chiesa a dirmi di uscire.
“Si, pero a la discoteca!”, dissi per scherzo.
Provocai urla e grida di entusiasmo. Avevo suscitato una rivolta di chierichetti, spronandoli al peccato e al ballo sfrenato.
Decidemmo per le nove e mezza e, come rientro, dissi loro che chiedessero per mezzanotte e mezza.
Mangia in un batter d’occhio, non ero super eccitata perché qualcosa dentro di me già odorava nell’aria un leggero tanfo di sconfitta.
Arrivarono puntuali, arrivarono alle nove!
Tre di loro avevano quindici anni, una ventidue, ma sembrava che ne avesse meno delle altre per la fifa che lasciava trapelare quando camminava per la strada di sera.
Arrivammo davanti alla discoteca e dissi a loro che sicuramente non ci sarebbe stato nessuno, la gente non arriva certo alle 21.15!
“Ma no, Gaia, qui si balla anche alle nove!”, assicurarono tutte quante.
Mi avvicinai al gestore e chiesi se c’era molta gente. Per poco non mi rise in faccia ed in quel momento pensai che le avrei ammazzate una per una.
Arrivammo ad un’altra discoteca e qui sembrò ci fosse moltissima gente.
Il buttafuori ci fermò, non avevamo i documenti con noi.
Con occhi da cerbiatto lo supplicai, sarebbe stata la mia ultima notte a Huanuco, volevo passarla in una discoteca.
Accetto la scusa, misera e falsa, e disse che dovevamo pagare due soles a testa. Due soles a testa equivalgono a cinquanta centesimi di euro!!!
Qui accadde dell’altro.
Mi avevano detto di non dare troppo perché i ragazzi si abituano in fretta a farsi pagare tutto.
Infatti la sera prededente avevo pagato io tutto: taxi di andata, gelato e taxi di ritorno.
Questa volta davanti alla discoteca nessuno tirò fuori i soldi.
Le guardai e dissi che avevo solamente 5 soles e che non avrei potuto tornare a casa con il taxi se le spendevo per la discoteca.
Nessuna di loro si mosse, la pù grande giurò di averne solo due di soles per la sua entrata.
Alla fine dissi loro, bene, andiamocene, non possiamo entrare.
Allora una di loro, che probabilmente fu la responsabile della scomparsa del bracciale che Robinson mi aveva donato, tirò fuori giusto giusto due soles.
Allora la maggiore ammise di averne molti di più e di poter pagare per due di loro, mentre all’altra ci avrei pensato io.
Rimasi a bocca aperta e mi sentii presa veramente in giro.
La birra me la offri Rosa, la più grande.
Io non avevo più soles veramente!
Entrammo finalmente.
Ebbi l’impressione di aver sbagliato tutto quando, sulle scale d’entrata le ragazze si bloccarono e non volevano entrare, dovetti spingerle per far sì che arrivassimo nel locale vero e proprio.
Costatai che si, di gente ce n’era, peccato che avrei dovuto ballare con tre persone in una volta se avessi voluto dire di aver ballato con uno della mia età.
La media era 15 anni, mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Mi comprai una birra, mi diedero una bottiglia da sessantasei che condivisi con le ragazzine.
Iniziammo a ballare ed arrivarono i bimbi della discoteca, chiesero ad ognuna di noi di ballare, cosi mi ritrovai a modi festa delle medie: tutte le ragazze da una parte e tutti i ragazzi dall’altra, formando una graziosa fila che divideva a metà la pista da ballo.
Mi dissociai dall’impresa ridicola e ballai da sola.
Dopo poco notai che la maggiore aveva una faccia sconcertata.
“Gaia, ci faranno del male questi qui”.
Questo perché avevano bevuto un po’ e lei l’aveva capito. Capii che era meglio andarsene prima che venisse un attacco di cuore a lei e di isteria a me.

Uscimmo e la più pestifera si distaccò da noi arrabbiata con Rosa.
Iniziò a correre, allora li ebbi paura io.
La raggiunsi e i miei occhi raccontarono tutto, le parole in castigliano uscirono fluide e grammaticalmente adeguate.
Si mise a piangere, ma meglio una ragazzina in lacrime di una ragazzina stuprata!