Arriviamo alla mensa.
Carmen aspetta a casa, sta male: “Ha bevuto acqua cruda!”, dice la nonna.
“Ma come, ma lo sa che non si fa!”, rispondo io esterrefatta.
Una delle prime regole è di non bere assolutamente l’acqua non clorata o non bollita.
Bussiamo a casa sua.
Esce, il viso contratto per i dolori di pancia, sudata, ma fredda.
Le diamo Ciproxin per le coliche, le dico che non deve bere l’acqua così.
Annuisce, si vergogna, poi mi viene in mente casa sua.
Quattro mura di legno, un odore pestilenziale all’interno; nel retro, all’aperto, terra umida e bidoni d’acqua ammassati a casaccio.
Da uno di quei bidoni, lasciati tutto il giorno alla mercé di animali, lei aveva bevuto.
Iniziano ad arrivare i ragazzini della “secondaria”.
Li facciamo mettere in fila: oggi c’è la campagna medica.
Prelievo del sangue, misurazione di altezza e peso.

Vedo le procedure, la dottoressa non si mette nemmeno i guanti, glieli portiamo e la invitiamo a metterseli. Un minimo di rispetto per queste vite.
Vedo le siringhe, gli aghi.
Forse in Italia c’erano negli anni Cinquanta.
Io sarei morta.
Faccio coraggio a qualche ragazzina più agitata, ma non guardo quando l’ago entra nel braccio, non riuscirei a stare in piedi.
Il tempo trascorre, quelli che terminano con i dottori si spostano alla mensa e mangiano tranquilli, parlando di quanto gli ha fatto male l’ago, quanto pesano, di quanto si sono alzati.
Arrivano quelli della “primaria” e iniziano a piagnucolare per la paura.
Non posso dare loro torto, ma probabilmente è per loro l’unica possibilità di farsi fare l’esame del sangue.
Devono farlo.
“Come ti chiami?”
La ragazzina risponde timidamente.
“Quanti anni hai?”
Silenzio.
La bimba ride timidamente, non sa quanti anni ha, ma solo il giorno e il mese del suo compleanno.
Per fortuna Enrico sa la loro età e aiuta i medici a classificare tutte le creaturine.

Viene anche Jerson, uno dei tre fratellini che mangiano qui.
La sua situazione è terribilmente angosciante.
Non hanno padre e la loro mamma è gravemente malata e non può lavorare.
Storia già sentita, si!
Intanto i bambini senza questa mensa non mangerebbero.
Il problema è che non ci sono fondi per accogliere tutti i bambini che necessitano l’aiuto dell’associazione di Enrico.
Ogni bambino è infatti adottato da qualche italiano che dona 30 euro mensili.
Lui è uno dei dieci bimbi che non hanno ancora trovato una persona disponibile ad adottarlo, ma hanno una situazione talmente tragica che Enrico non ha saputo chiudere gli occhi e sperare che arrivasse un padrino ad adottarli, e li ha accettati al programma di alimentazione.
“Ovviamente non si può andare avanti così sempre, mi dice, devo assolutamente qualcuno che paghi per loro, perché non posso accollarmi tutto io, non sono un miliardario”.
Dico che conosco molta gente, che se si mette insieme in piccoli gruppi, con cinque euro al mese può adottare un bimbo.
Lo spero.
Passerò la voce.

Parlo con Roy, suo padre è morto da 10 anni, lui ne ha undici.
Non si ricorda di lui, ma sente la mancanza di un padre.
Nei suoi occhi, i quali i primi giorni non mi guardavano nemmeno, leggo richiesta di amore, di aiuto.
Mi si stringe il cuore, lo guardo con l’amore che posso donargli, lo ascolto.
Anche lui non ha il padrino, anche lui è uno dei ragazzini a rischio perché per lui non c’è nessuno che paghi.
Sarebbe così facile, e allo stesso tempo così inutile.
Inutile per il loro futuro. Per un futuro migliore.
Questi bambini sono destinati a lavorare per la strada, anche con un titolo in mano non cambia molto.
L’istruzione è talmente limitata che anche volendo andare in un altro paese, il loro titolo di studio non varrebbe.
Questa è la tristezza.